Un Baucinese a New York (1901)


Turi non vuole stare a Baucina, gli sta troppo stretto il suo paesino, è andato militare ed ha conosciuto una grande città come Napoli: da quel porto ha visto partire i bastimenti per l'America ed è là che vorrebbe andare. Esprime questo desiderio in famiglia, sono tutti contrari, in America vanno quelli che non hanno niente, invece lui ha tutto, ma come gli rinfaccerà per tutta la vita la sorella Vincenzina "ti puncia l'orio na panza e ti lamintavi" un detto Baucinese per dire che il cavallo si lamenta perché ha troppa biada nello stomaco. Lui ribatte che anche lo zio Giovanni, fratello della mamma, sia andato in America anche se a Baucina era un grosso burgisi. 

Turi è testardo e l'avrà vinta, partirà come turista e andrà a trovare lo zio Giovanni ed il cugino Shalì', cosi in americano chiamano Salvatore. Partirà con il bastimento da Napoli. Come racconterà lui già il viaggio fu un’ esperienza. Sul bastimento conosce due giovani ebrei. Racconterà sempre divertito come avvenne questa conoscenza: lui viaggiava in prima classe, ma ben presto si annoiò perché non c'erano giovani, che viaggiavano tutti in seconda e per lo più in terza classe. Un sabato scese in seconda classe ed un giovane gli chiese se per favore poteva accendere loro la spiritiera, che era quel fornelletto alimentato ad alcool etilico che serviva per riscaldare le vivande. Lui capì che non avevano da accendere e gli porse la scatola dei fiammiferi, ma il giovane rispose che loro i fiammiferi li avevano, solo che essendo sabato non potevano accendere il fuoco. Lui si prestò volentieri ma poi chiese il motivo di ciò. I giovani in questione erano due e gli spiegarono che loro professavano la fede rbraica e per loro il sabato era sacro e c'era il divieto di preparare i cibi e quindi di accendere il fuoco, loro stavano appunto riscaldando del caffè del giorno prima. 

Turi fece amicizia con i due giovani di fede ebraica, ma più italiani di lui, uno era calzolaio e l'altro guantaio. Questi aveva con sé una valigia piena di guanti che aveva confezionato ma non aveva potuto vendere, questo era l'unico capitale che si portò dall'Italia. Disse che sicuramente li avrebbe venduto appena arrivato, invece li vendette tutti sulla nave, e il primo acquirente fu Turi, l'altro il calzolaio aveva portato con se i suoi attrezzi di lavoro ed anche molti legacci per le scarpe, anche lui si diede da fare durante il lungo viaggio.

 Turi aveva tanta ammirazione per questi due giovani, il calzolaio si chiamava Davide, mentre il guantaio si chiamava Cesare, provenivano entrambi dal Roma. Prima di scendere dalla nave diedero a Turi un indirizzo dove li avrebbe potuto trovare ogni sabato, si lasciarono con la promessa di rivedersi. Il cugino Shalì si fece trovare al porto con un cartello " Shalì La Barbera/Turi Alessi " infatti i due cugini non si conoscevano. Molti sulla banchina avevano dei cartelli, per i turisti c'era solo la formalità dell'esibizione del passaporto, l'esibizione del denaro che non doveva essere al di sotto di una certa cifra ed anche l'indirizzo di dove si doveva andare ad alloggiare, gli altri passeggeri invece venivano portati in quarantena. Quando mio nonno arrivava a questo punto del racconto diceva: <<Ed appena misi peri 'nterra capivu subitu cosa è l'America, cunti sulu si ha munita>>. 

Turi raggiunse la casa dello zio Giovanni che abita a Little Italy, proprio a Bocina stritti, che è una traversa della Eighteenth Avenue: chiamano quella strada Bocina stritti, perché è interamente abitata da Baucinesi. Lo zio Giovanni ha comprato un appartamento in una di quelle case, a lui il bisinisi gira, ha un magazzino al porto, importa dalla Sicilia formaggio pecorino ed olio di oliva che poi rivende ai ristoranti ed ai negozi di Little Italy. Il cugino Shalì è impegnato nel magazzino a ricevere le merci, lo zio a smistarli ai negozi ed ai ristoranti, quasi tutti gli operai sono siciliani, si parla uno slang misto di siciliano e termini inglesi sicilianizzati, l'attività non si ferma un minuto. 

Turi ogni giorno va con lo zio e il cugino al magazzino, dopo qualche giorno lo zio gli propone se vuole lavorare con lui, gli serve un altro facchino, Turi declina l'invito, lui è andato in America per fare il signore non il facchino, lo zio gli dice che in America tranne quelli che sono ricchi già da generazioni, tutti gli altri cominciano da zero Anche lui non appena arrivato in America ha fatto il briccaiolo (il muratore, da brick, mattone), per i nuovi arrivati c'è solo questo, o i facchini o i muratori.

A Turi questo discorso non piace, lui a Baucina si dedicava solamente a piazzare a Palermo i prodotti della masseria di suo padre ed ora in America dovrebbe fare il garzone?

È arrivato da circa due settimane e molte cose di quel posto non gli piacciono, come per esempio vengono trattati gli italiani, nel quartiere degli irlandesi in molti locali c'è scritto sia in inglese che in italiano " VIETATO L'INGRESSO AGLI ITALIANI" , ma lui e suo cugino sono entrati spesso in un bar vicino la chiesa di San Patrizio e lì li hanno fatti entrare. Suo cugino gli ha detto che loro possono entrare perché dai loro vestiti si vede che hanno soldi, quindi per loro non c'è nessun divieto. Una sera che si recano in quel locale si avvicina loro un bambino cencioso e tremante, sentendoli parlare in siciliano si rivolge loro con queste parole 'signirini paisa', u Signuri vi mannau...Turi mette le mani in tasca e gli dà qualche penny, ma il bambino continua, " no Paisà hai pitittu e puru li me du suruzzi nichi.. E allura chi voi? Chiede Turi, il bambino risponde: 'na 'da bacheria a quist'ura vinninu viscotta e pani a picca peni' ma a mia nun mi fannu trasiri picchi' sugnu talianu. Turi risponde: ma puru io sugnu talianu... Ma un talianu riccu, risponde il bambino. Turi pensa "sempre a stessa storia, ca ci su figghi e figghiastri" Turi e Shalì entrano nella Bakery e comprano pane e biscotti, vedono che nel mentre sono entrati dei ragazzini male in arnese come il piccolo siciliano, ma hanno i capelli rossi o biondi ed il volto lentigginoso, sono irlandesi poveri, ma non sono taliani, e guardano quei signori ben vestiti con alterigia ed odio, il panettiere dà loro qualche biscotto e vanno via. Stanno facendo il giro del loro quartiere prima che i negozi chiudono a raccattare qualche avanzo. Il bambino talianu li ringrazia e dice che lui purtroppo abita in un quartiere dove gli italiani non sono ben visti, ma suo padre fa il guardiano in una villa e hanno l'alloggio gratis, ma non è sempre che suo padre trova lavoro durante il giorno. Con queste sue parole si lasciano. 

Dopo circa un mese che Turi si trova a New York un sabato decide di andare a trovare i suoi amici ebrei,  nel quartiere ebraico che si trova a Brooklyn propria accanto a Little Italy, Turi trova i suoi amici all'indirizzo che loro gli avevano dato, praticamente era il centro culturale ebraico e luogo di assistenza dei nuovi arrivati, a Cesare e a Davide era stato dato un seminterrato che avrebbero usato come laboratorio e come dormitorio, in più una macchina da cucire Singer per cucinare il pellame. Entrambi lavoravano a cottimo per dei grossisti anche loro ebrei, per un anno la comunità avrebbe offerto loro l'alloggio gratis ed anche la possibilità di usufruire ogni giorno della mensa. La comunità ebraica newyorkese offriva per un anno ai loro correligionari questo tipo di assistenza se loro erano bravi a crearsi il business entro un anno bene se no non davano loro una seconda occasione. Un buon metodo, davano la lenza per pescare non il pesce. Anche nella comunità italoamericana c'era molta solidarietà ma tutto era lasciato alla buona volontà dei singoli, non c'era niente di strutturato, nel seminterrato del palazzo dove abitava lo zio Giovanni, viveva la famiglia di una vedova la quale avendo un bimbo piccolo. Lei non poteva andare a lavorare e vivevano della carità dei vicini e della parrocchia che gli pagava la prigione del sello. Ma in tutti i tre gruppi etnici confinanti era la malavita organizzata che dettava legge e molte volte entravano in guerra fra loro per la spartizione dei traffici e delle zone di influenza, ma la più forti e strutturata era la mafia italoamericana. A Little Italy era la padrona assoluta e non si poteva muovere foglia d'albero senza il suo consenso. 

Turi capì che New York non faceva per lui e decise di ritornare in Italia. Suo padre gli mandò il denaro per ritornare e fu così che si concluse l'avventura americana di Turi, che nel suo viaggio di ritorno conobbe due socialisti che erano stati espulsi dagli Stati Uniti d'America, due socialisti palermitani che avrebbero influenzato le scelte politiche della sua vita. 

Silvana Alessi

L'emigrazione siciliana clandestina in Germania. Raccontata da Stefano Vilardo

Gli italiani hanno la memoria corta. Chi oggi si meraviglia dei flussi migratori “irregolari”, che hanno uno dei loro primi approdi nei porti e nelle coste siciliane, ha dimenticato che 50 anni fa “irregolari”sono stati molti nostri connazionali. C’è un libro, tra i tanti, che ha documentato in modo vivo e inoppugnabile il carattere clandestino di gran parte dell’emigrazione siciliana in Germania nei primi anni 60 del 900. Questo libro, scritto da Stefano Vilardo, s’intitola TUTTI DICONO GERMANIA GERMANIA e costituisce un documento prezioso della storia del suo paese, Delia (CL), oltre che un coraggioso atto di denuncia delle ragioni che costrinsero centinaia di migliaia di siciliani, in quegli anni, ad emigrare clandestinamente. La prima edizione del libro venne pubblicata nel 1975 dall’Editore Garzanti con una breve ma densa introduzione di Leonardo Sciascia. Scomparso dalla circolazione , malgrado la sua straordinaria attualità, il volume è stato riproposto nel 2007 da Sellerio. Chi scrive ne sta ricostruendo la genesi, dal momento che l’autore ci ha permesso di prendere visione delle originali bobine nelle quali registrò le interviste agli emigrati del suo paese natale. Pur avendo rielaborato poeticamente le testimonianze di questi ultimi, Vilardo è rimasto fedele alla lettera e allo spirito delle parole dei suoi compaesani. Una prima anticipazione della ricerca, tuttora in corso, è stata data nel saggio Poesia e storia in “Tutti dicono Germania Germania” di Stefano Vilardo presentato ad un Convegno Internazionale di Studi svoltosi nel 2010 all’Università di Cagliari e in un articolo pubblicato recentemente nella rivista telematica Dialoghi Mediterranei: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-voce-degli-emigrati-in-poesia/. A questi lavori si rimanda chi volesse saperne di più. Di seguito alcuni brani delle 42 storie raccontate nel libro. 

Sono partito per la Germania / il due ottobre del millenovecentosessantuno / che qui non potevo più campare /io e la famiglia con quattro bambini / Sono partito da clandestino / e non ho passato le montagne a piedi come tanti altri / ma d’intrallazzo con le macchine / Centomila lire mi è costato / denari prestati al vento per cento / ma Dio mi ha aiutato / e ora alla posta ho qualche milione. (Stefano Vilardo, Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell’emigrazione, Sellerio 2007, pag . 19).

Partii per la Germania da clandestino / Per attraversare le montagne / feci dodici ore di cammino a piedi / soffersi molto ma appena arrivato / mi imbocciai in una fabbrica di prodotti chimici / Lavoravo a riempire fusti di acido / un giorno per poco non ci lasciai un occhio / chè una goccia mi schizzò in faccia […] Ci capiamo a gesti / a mano a mano gli rubiamo qualche parola / ma a me mi fanno schifo / ché ci trattano peggio dei cani / un giorno che entrai in un caffè con gli amici / che volevamo berci una bottiglia di birra / ci buttarono fuori a pedate. ( Sellerio, pp.47-48)

Molto prima d’emigrare lavoravo la terra / la lasciai ché non mi dava più da campare / e mi misi a fare il manovale /Insomma mi guadagnavo la giornata / poi un sommatinese mi convinse / a partire con lui per la Germania /Arrivammo a Ventimiglia / in venti persone tutte deliane / Per passare la frontiera / ci portarono per le montagne / in mezzo ai boschi / attenti alla Finanza / Non riuscimmo a passare / l’altra guida che doveva arrivare con le macchine / non venne / e noi restammo in mezzo alle montagne /senza acqua né pane / Allora un mio amico che aveva fatto più volte quella strada / mi portò con lui / Riuscimmo a passare / c’era la neve più alta di un metro / camminavamo con la bocca / ché non riuscivamo a stare dritti / tutti bagnati / mezzo soffocati dal vento / ma gli altri compagni li bloccò la polizia / A Grenoble trovammo dei paesani / che ci ricoverarono / e l’indomani ci portarono al lavoro / In Francia stavo bene / ma un mio amico mi disse / che in Germania pagavano meglio / allora andiamo a vedere / Passammo clandestinamente / di notte / alle due / Attendemmo dentro un cimitero che si facesse notte / so io la paura che mi presi (Sellerio, pp.80-81)

Partii da clandestino / con diversi paesani e sommatinesi e favaresi / Passammo le montagne / così alte che facevano spavento / Sette giorni di fame /che ci nutrivamo con la neve / Camminavamo di notte / per la paura che la polizia ci scoprisse ( Ibidem, pp.109-110)

***

Non riuscivo a campare qui /Lavoravo in miniera a Ramilia / per un salario di fame /         Il padrone il cavaliere Sala /ci faceva sempre scioperare /affinché la regione gli desse i contributi /Soldi sempre soldi /era come un pozzo senza fondo / ma a noi non lasciava che le briciole. ( Sellerio pag.31)

Uno scappa di casa e va all’estero / per i bisogni della famiglia / per risolvere il problema della casa / per amore dei figli per se stesso. / Solo come un cane / si mette sopra un treno / che lo porta in terre mai viste / tra gente che non conosce / e quando arriva è la cosa più brutta del mondo / chè uno non sa parlare non capisce. […]. È per questo che scappiamo all’estero / è per campare i nostri bambini. ( Sellerio pag.33)

Partii per la Germania / nel mese di novembre del sessantatré / e mi sembrò di essere andato all’inferno / […] /E’la lingua che non ci aiuta / Io mi faccio i fatti miei / E’ dal cinquantanove che vado e vengo / e ancora non capisco niente / Non parlo e lavoro come un mulo / allora mi rispettano/ Bisogna lavorare e stare zitti / […] Ritorno dal lavoro stanco morto / e arrivato in baracca devo cucinarmi / e lavarmi la roba e rattopparla / chi ha tempo di pensare alle donne / E’ vita questa / Vita di sacrifici / Ma io dico / che sempre noi dobbiamo farli questi sacrifici / ché siamo figli di puttana / muli siamo senza padre né madre (Sellerio, pag.26).

Francesco Virga