Ellis Island

La porta di ingresso per gli Stati Uniti era Ellis Island, un piccolo isolotto situato nella baia di New York. Il porto di Ellis Island nel corso della sua storia ha accolto più di 12 milioni di aspiranti cittadini statunitensi (prima della sua apertura altri 8 milioni transitano per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan). Dal 1892 al 1954 (anno della chiusura), Ellis Island divenne la principale stazione di accesso e di smistamento degli emigrati negli Stati Uniti. Il picco più alto di arrivi si è registrato nel 1907 con 1.004.756 di persone approdate. Ellis island era la porta del sogno: da lì si apriva la strada per cercare la fortuna. Quando le navi attraccavano nel porto di New York, non tutti i passeggeri venivano fatti sbarcare: era concesso lasciare la nave solo ai cittadini americani e ai passeggeri di prima e seconda classe. Gli emigrati invece, passeggeri di terza classe, subivano un trattamento diverso: venivano fatti salire su dei traghetti, che erano di solito sovraffollati, e da lì condotti a Ellis Island, dove sarebbero stati sottoposti a dei rigidi controlli: l'esame medico e amministrativo che avrebbe deciso la loro sorte. Chi doveva essere trasportato ad Ellis Island veniva comunque tenuto,a volte per, ore su queste imbarcazioni, spesso senza acqua nè cibo. All' arrivo gli emigrati dovevano inizialmente esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li ha portati a New York, dopo di ciò iniziava la lunga attesa per i controlli medici. I controlli effettuati erano molto rigidi e severi e per questo motivo Ellis Island è stata ribattezzata "l'isola delle lacrime" . Gli immigrati venivano controllati singolarmente e venivano accertate le loro condizioni fisiche e mentali. Le persone ritenute sospette venivano segnate con una lettera che veniva scritta sulla schiena con un gesso,per esempio se le persone avevano delle affezioni al viso, venivano segnate con una “F” (face), la “E” (eyes) indicava le malattie agli occhi, l’”H” (heart) stava per il cuore, infine la “X” indicava debolezze mentali. Le persone segnate dovevano subire un ulteriore controllo che decideva l'idoneità o l'obbligo al rimpatrio. Spesso, chi veniva rifiutato e obbligato a risalire sul bastimento che lo avrebbe ricondotto nello Stato di partenza, si buttava in mare per cercare di raggiungere Manhattan a nuoto. Gli immigrati che riuscivano a dimostrare di essere idonei allo sbarco venivano condotti nella Sala di Registrazione dove gli ispettori li interrogavano a uno ad uno, successivamente venivano trasferiti, con un altro traghetto, a Manhattan e fatti scendere a Battery; da quel momento in poi gli immigrati erano liberi di dirigersi nelle varie città di destinazione . Dopo aver accolto milioni di persone, nel 1954, Ellis Island ha chiuso i battenti. I registri  dell'immigrazione, sono stati conservati negli edifici un tempo usati per gli uffici dell'immigrazione. Dal 1990, l'isolotto è sede del Museo permanente dell' Immigrazione ed è divenuto tappa obbligata di migliaia di turisti. Giusi Scibetta

Immigrati a Misilmeri

La presenza degli stranieri è ormai a Misilmeri una realtà con cui bisogna confrontarsi quotidianamente, sia come società civile, sia come istituzioni. Il dato numerico in sé non sembra tanto significativo, se confrontato con la popolazione locale. Parliamo dell’1 % circa rispetto alla popolazione, che è di circa 20 mila abitanti . Per lo più si tratta di magrebini, in particolare provenienti dal Marocco, ma ci sono anche tunisini, qualche rumeno, qualche famiglia di cinesi che a Misilmeri gestiscono attività commerciali nel campo dell’abbigliamento, altri provenienti dall’Africa subsahariana, altri ancora dal sud est asiatico. In genere gli stranieri si occupano di vendita ambulante di vari prodotti nei “mercatini” di paese o attraverso bancarelle stabili in prossimità delle piazze. Saltuariamente alcuni trovano lavoro nell’agricoltura come raccoglitori o aiutanti nella potatura stagionale degli agrumeti o degli uliveti. Altri lavorano nelle piccole aziende artigianali presenti sul territorio, o nella molitura delle olive. Altri ancora trovano impiego nel campo edilizio, anche se si tratta di un settore sempre più in crisi. Le donne invece sono per lo più casalinghe o raramente svolgono l’attività di “badanti” presso persone anziane, o vengono chiamate per le “pulizie”. Occupazioni quasi sempre in nero, senza quindi alcuna tutela di carattere sanitario e previdenziale. Una buona parte degli immigrati usa Misilmeri come luogo di passaggio verso regioni o città italiane o europee che possono offrire maggiori opportunità. C’è quindi un flusso difficilmente quantificabile, come difficile è da quantificare la presenza clandestina che sicuramente risulta piuttosto consistente, se si considerano i numeri nazionali. Non manca qualche caso di matrimonio misto con prole. Anche a livello scolastico la presenza di alunni stranieri è piuttosto scarsa. Nella scuola media si contano otto studenti su 970 con una percentuale dello 0,82 %. Il livello culturale è medio basso, ed anche dal punto di vista economico gli stranieri vivono condizioni abbastanza critiche, anche se riescono ad affrontare le difficoltà in modo dignitoso. Ma i numeri, come si diceva prima, non restituiscono la complessità del fenomeno, se si considera che dietro ogni numero c’è una persona o un bambino/adolescente. Non si può dire infatti che gli stranieri a Misilmeri siano integrati nel tessuto sociale, soprattutto dal punto di vista delle relazioni umane, che rappresenta l’indicatore più importante per comprendere il livello di integrazione. Essi formano una specie di corpo separato rispetto alla comunità autoctona. È raro vedere un immigrato dialogare per la strada con un italiano o passeggiare con un amico italiano. Di solito formano dei gruppi, parlano tra loro, quasi sempre nella loro lingua e mantengono una distanza culturale abbastanza netta. La separazione è meno cronica a livello scolastico, dove, anche grazie all’esiguità del numero, i ragazzi stranieri riescono ad interagire con gli altri e a dialogare con i coetanei, anche se non mancano episodi di intolleranza che però sono espressione di un generale degrado dell’ambiente studentesco. Intolleranza e prevaricazione sono, infatti, atteggiamenti attuati nei confronti di chiunque manifesti una qualche forma di diversità sociale, culturale o fisica, o una semplice fragilità emotiva. Carmelo Fascella

La lingua passa il mare. Migranti siciliani in Tunisia

A partire dalla seconda metà del secolo XIX, la Sicilia fu interessata non soltanto dai grandi movimenti migratori verso il continente americano (NordAmerica, Argentina, Brasile), di cui cospicue sono le testimonianze, ma anche dagli spostamenti verso i paesi del bacino mediterraneo dell’Africa: Algeria, Egitto, Marocco, Tunisia. Ciò appare sorprendente, se si guarda alle immigrazioni di oggi. Negli anni Trenta del Novecento in Tunisia vivevano circa 100.000 siciliani provenienti dalle provincie di Trapani, Palermo, Ragusa e Agrigento. Le cause di questo fenomeno sono individuabili nelle condizioni di miseria della terra di espulsione, nella crisi agraria, nel forte incremento della popolazione nei primi anni del 1900, nel conseguente aumento della disoccupazione; ma sono anche rintracciabili nel potere attrattivo della terra di approdo, nelle seducenti condizioni economiche e politiche della Tunisia francese di fine Ottocento e nella conseguente catena di richiamo degli immigrati verso i connazionali residenti in patria. Già nel secolo XVIII la Tunisia era abitata da imprenditori e commercianti livornesi e genovesi, proprietari di tonnare, per esempio, che reclutavano la manovalanza in Sicilia. Nella prima metà dell’Ottocento, la città di Tunisi divenne centro di cospirazione politica per mezzo di carbonari o mazziniani, che qui trovarono rifugio, decidendo di rimanervi anche dopo l’Unità d’Italia. Motivo di attrazione per i braccianti furono le convenienti tipologie di contratti di affitto delle terre (enzel, mhagarni) che permisero a molti di diventare proprietari. Dopo il 1881, la manovalanza siciliana fu richiamata dalle imponenti opere di rinnovamento che avviava il protettorato francese: la costruzione del porto di Tunisi e di quello di Biserta, e della linea ferrata Tunisi-SousseKairouan. La Tunisia appariva insomma un paese in cui era possibile per mezzo del lavoro raggiungere uno stato di benessere. Si formarono colonie di siciliani soprattutto lungo la costa settentrionale, a Mahadia, a Susa, nella penisola del Capo Bon, a Biserta, a Tunisi, dove sorse nella zona portuale (la Goulette) la Piccola Sicilia, abitata perlopiù da pescatori. A Susa o Sousse sorsero Capaci Grande e Capaci Piccolo, dal nome della località vicino a Palermo. Nei territori ad ovest, confinanti con l’Algeria, la presenza degli immigrati era legata all’estrazione dei minerali. In questa zona, nei dintorni di El Kef, vivevano venticinque famiglie originarie di Roccapalumba. Questi luoghi dell’immigrazione divennero dei veri microcosmi culturali, eterotopie di un luogo altro, della patria negata: gli immigrati della Goulette non rinunciarono ai festeggiamenti della Madonna di Trapani. La statua ogni anno, il 15 agosto, e fino a poco tempo fa, veniva portata in processione per le strade di Tunisi pure dai musulmani che la chiamavano “la bedda matri di Trapani”. Questa meravigliosa convivenza multiculturale si interruppe nel 1956, quando la Tunisia ottenne l’indipendenza dalla Francia e cominciò il processo di decolonizzazione. La linea nazionalistica di “tunisificazione”, intrapresa del leader indipendentista del Neo Destour Habib Bourguiba, costrinse tutti gli stranieri a rimpatriare. Pochi siciliani ritornarono in Sicilia: furono accolti nei campi profughi allestiti in Lombardia, in Puglia e in Emilia. Stranieri in Patria, molti si recarono in Francia, paese sentito culturalmente più vicino sia perché ne conoscevano la lingua, avendo preso la nazionalità francese, sia perché in Tunisia avevano lavorato presso un’azienda francese. La presenza contemporaneamente nel secolo XX in Tunisia di siciliani, francesi, italiani, tunisini favorì le interferenze linguistiche e diede origine a una straordinaria lingua creola. S.C.

Il vescovo Lorefice: «Siamo noi i predoni dell'Africa»

"Care Amiche, Cari Amici, siamo noi i predoni dell’Africa! Siamo noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni di poveri, li costringiamo a partire per non morire: bambini senza genitori, padri e madri senza figli. Un esodo epocale si abbatte sull’Europa, che ha deciso di non rilasciare più permessi per entrare regolarmente nel nostro continente. E allora questo esercito di poveri, che non può arrivare da noi in aereo, in nave, in treno, prova ad arrivarci sui barconi dei trafficanti di uomini, dopo due anni di viaggio allucinante nel deserto e di detenzione in Libia. Cari Cittadini, devo gridare stasera questa verità: quelli che vengono chiamati centri di smistamento, di detenzione, quei centri che i nostri governi sollecitano e finanziano per ‘bloccare’ il flusso migratorio, spesso richiamano i campi di concentramento. E se settant’anni fa si poté invocare una mancanza di informazione, oggi no. Non lo possiamo fare, perché ci sono le prove, nella carne martoriata di questa gente, nei filmati, nei reportage di giornalisti coraggiosi (mentre giornali e telegiornali di altra fatta parlano dei migranti sulle navi come di un ‘carico’ alla maniera delle merci e delle banane!). Noi sappiamo, e siamo responsabili. E dobbiamo levarci! Giorgio La Pira era un uomo del Sud e non si scordò mai di esserlo. Noi, qui da Palermo, stasera, alziamo la nostra voce. Noi che sappiamo che cosa vuol dire essere migranti. Noi che abbiamo visto i nostri padri e i nostri nonni costretti a lasciare la loro casa, rifiutati, umiliati, buttati fuori da case e locali perché siciliani, perché italiani. Noi sappiamo e non taciamo. Cosa abbiamo fatto e cosa faremmo al posto di queste donne, di questi uomini, di questi bambini, in fuga dal nulla e dalla morte? Se fossero i nostri figli, i nostri parenti ad essere in pericolo di vita, senza cibo e assistenza, se fossero torturati e stuprati, che cosa faremmo? Una nuova epocale trasmigrazione dei popoli sta accadendo davanti ai nostri occhi, e abbiamo bisogno di chiarezza e di umiltà per capire quale società vogliamo costruire, quale risposta intendiamo dare ai segni dei tempi". * Dal "Discorso alla città di Palermo" in occasione del Festino 2018 tenuto dall'arcivescovo Corrado Lorefice

Cena a Bolognetta per abbattere le "frontiere della testa"

Si è svolta il 15 luglio a Bolognetta la "cena sociale" in piazza, aperta a tutti e per l'inclusione di tutti, organizzata dal "Forum delle associazioni bolognettesi" nell'ambito della "Festa della Parrocchia". I diversi gruppi e le comunità di immigrati presenti in paese hanno messo in comune cibo e musica e hanno così sottolineato la necessità e la bellezza dell'accoglienza e dell'integrazione. Il gruppo Agesci ha realizzato un murale, in Piazza Caduti, dal titolo "Le forntiere sono nella tua testa" per evidenziare che dipende da noi abbattere i muri che ci separano dagli altri e non considerare insuperabili i confini tra gli Stati, perché l'umanità è una sola.


L’emigratu. Eligio Faldini premiato ad un concorso sul "viaggio"

Con la lirica “L’emigratu” Eligio Faldini è tra i premiati delll’edizione  2018 del concorso di poesia "Città di Termini Imprese" dedicato al tema del “viaggio”. Faldini è nato nel 1956 e vive a Marineo.  “Sono figlio di poveri contadini – spiega – e non ho avuto la possibilità di studiare. Da autodidatta ho imparato a suonare la chitarra e a comporre canzoni. Un’altra grande passione della mia vita sono le poesie. Mi definisco pertanto poeta-cantautore”. E aggiunge: “Molti anni fa, fui profondamente turbato dalle immagini della guerra in Bosnia e composi la canzone “Sarajevo piange” , partii per Roma con la chitarra e uno striscione, convinto di farla ascoltare al grande pubblico. Partecipando una sera al Maurizio Costanzo Show il caso volle che un regista  stesse parlando proprio di quella guerra, così tirai fuori lo striscione e scoppiò un putiferio. Grazie ad un prete, don Salvatore La Sala, allora parroco del mio paese, feci avere il cd che conteneva questo brano all’Arcivescovo di Sarajevo Vinko Puljic che si impegnò a diffonderlo in radio in tutta la Bosnia. La mia produzione di canzoni è assai varia e spesso prende l’ispirazione proprio dai fatti di cronaca. E’ il caso di “Guerra senza fine” che analizza il dramma dell’Isis”. Nel 2002 Faldini è stato il primo classificato in un festival  di giovani cantautori emergenti. Ha realizzato due CD di musica sacra, il primo, nel 2009, intitolato “Sorgente di speranza” e il secondo nel 2011, “Il grido”. Nell’ambito poetico nel 2000 è stato segnalato anche al XXVI Premio Marineo con la lirica inedita “Lu distinu”, mentre nel 2015 è risultato finalista alla 41 edizione del Premio Internazionale di Poesia Città di Marineo con la raccolta “Funtana di la me vita”.  Di recente la sua lirica “La saggezza” è stata inclusa in un’antologia curata dal Club dei Poeti di Milano.

L’emigratu

Na sula cosa pensu:
essennu picciriddu
m’abbrazza a me patri
e na valigia carricata… Currìa
pi nun perdiri lu trenu, a Diu a la vintura
pi ‘na terra nun canusciuta.
Li so pedi iccavanu sangu
pi mancanza di li scarpi
e cu li cavusi sfunnati e arripizzati... Currìa
affruntannu dda sorti,
comu ddi caddusi chi nescinu
nun sapennu si vennu manciati.
Grazi a ddu jornu e a me patri
furtuna iu fici.
Ma c’è na cosa ca mi turmenta notti e jornu:
la me terra!
Duvirusu turnavi a circari ddi quattru mura
unni me matri detti la so vita
mittennumi a lu munnu,
arristannu macchiati
di lu nostru stessu sangu.

1962. Gastarbeiter, dalla Sicilia in Germania

Siamo già alla fine dell’anno 1961 e Bolognetta sembra non essere per nulla cambiata: sempre vuota, senza risorse in particolar modo per un giovane che non ha studi e senza alternativa. La maggior parte dei giovani lavora nei campi non per passione, ma perché è stata educata all’attaccamento ad essi, quindi si sente come figlio della terra; per la terra soffre, lotta, fa di tutto per non abbandonarla. Ma è una lotta lunga e penosa e senza speranza; per molti significa rinuncia assoluta. Tutti notiamo che chiunque si allontani da essa conduce una vita agiata, migliore, così aspettiamo l’occasione buona per abbandonare ciò che i nostri padri hanno gelosamente custodito. All’improvviso, come tuono a ciel sereno, ecco l’occasione tanto desiderata! E il settembre del 1961: un signore di Bolognetta si interessa perché nel nostro paese venga realizzato un corso per carpentieri in legno. I diplomati avranno facoltà di poter lavorare all’estero, nella Repubblica Federale Tedesca, per circa sei mesi. Presi dall’entusiasmo, un gruppo di giovani volenterosi ci incamminiamo verso un nuovo mondo: quello dell’edilizia, invero non troppo convinti dei risultati che potevamo conseguire; ci aggrappiamo a questo solo e unico filo di speranza, come il naufrago a dei relitti, consci che non reggerà a lungo. Il corso si apre all’insegna della buona volontà e con tanti programmi e illusioni. Il corso ha buona conclusione: 15 su 17 ci qualifichiamo, due risultano aiutanti. Ora adoperiamoci per ottenere al più presto il passaporto e poi... Poi via libera! Non vediamo l’ora di guadagnare per poter agevolare nostre famiglie e per appagare qualche nostro desiderio. Dopo una lunga attesa, il 15 giugno del 1962 arriva la lettera di partenza, ancora bisogna sostenere una visita a Napoli. Ecco i 10 più assidui pronti alla partenza! Le mamme, le sorelle piangono; teniamo a stento l’emozione per non farle di più soffrire, ma in noi c’è come una bomba senza sicura, è sufficiente una parola, uno sguardo per dare il via alle lacrime. E’ con me Pierino, mio cugino, e con le sue battute distoglie il pensiero dell’imminente separazione. È toccato anche a lui l’epilogo del dramma interno e a me confortarlo. Arriviamo a Palermo, all’ufficio di collocamento. Il viaggio è iniziato: prima tappa Napoli per la visita medica. I due giorni di Napoli sono di dura tensione: “Sarò idoneo o tornerò a casa con qualche malattia mai saputa?”. Questa è la preoccupazione che ci assilla. Per fortuna non uno di noi viene escluso. Dopo la visita, in un ufficio veniamo presentati ad un tedesco, il quale ci chiede se intendiamo lavorare per la sua ditta; d’accordo tutti accettiamo e firmiamo il contratto di lavoro numero 446. Spunta un altro giorno. Veniamo impacchettati in un treno colmo di emigranti tutti numerati come detenuti! Viaggio verso l’ignoto, così lo definisco; non sappiamo la destinazione né la durata del viaggio. Finalmente arriviamo alla frontiera italiana; dal Brennero attraverso l’Austria e un tratto di Svizzera giungiamo in Germania. Alla prima stazione qualcuno grida: “Tutti quelli che hanno il numero… sono pregati di scendere”, e così le stazioni successive. A ogni sosta della locomotiva abbiamo l’ansia di sentire chiamare il nostro numero, ma pare che si siano dimenticati di noi. Improvvisamente ascoltiamo il numero 446; eccitati prepariamo le valigie e scendiamo ma dobbiamo aspettare, con grande delusione, la coincidenza di un altro treno. Nell’attesa della coincidenza ceniamo, poi chiamati i numeri colprendiamo la marcia verso l’ignoto. Ecco il nostro turno! Un solo nome ci è noto: “Sterkrade”. Arriviamo in questa città alle 22.00 circa. Alla stazione viene a prenderci il tedesco e l’interprete che abbiamo incontrato a Napoli. Man mano che usciamo dalla stazione entriamo in una cabina di foto istantanee (in un minuto quattro foto!). Questa la prima meraviglia che notiamo in Germania; le foto sono orribili: malandati e stanchi di tre giorni di viaggio, barba lunga e capelli spettinati, sono sicuro che anche il più coraggioso dei bambini vedendoci in simil foto piangerebbe dalla paura. Dopo le foto ci imbussolano in un camion chiuso ed in 20 minuti circa arriviamo a Sterkrade più preciso a Fronstebruk. Basta trasportarsi con la fantasia in un villaggio western con una stradetta dritta lunga circa 300 m, fiancheggiata da baracche di legno, per avere l’idea del luogo! Ogni baracca ha due porte, quattro stanze per ogni porta anch’esse numerate. Non manca la grande sala pure in legno. Televisione e radio sono sistemati in un altro salone; i due saloni sono divisi dalla cucina per poter servire meglio. Il camion ci scarica. E’ venerdì, l’interprete si chiama ad uno ad uno, ci offre un anticipo e ci annuncia che lunedì visiteremo la fabbrica, nostra fonte di lavoro. L’interprete ci assegna i letti, stanchi e soli con i nostri pensieri ci addormentiamo con un bagaglio di ricordi e con una grande speranza per il futuro! Pino Guttilla

Mike Bongiorno “figlio” di Campofelice di Fitalia

Le origini campofelicesi di Mike Bongiorno si legano alla storia di una famiglia di emigrati negli Stati Uniti. Trovano le radici nei suoi diretti antenati, il padre Filippo e il nonno mastro Michelangelo, detto Manzù per il soprannome tramandato dagli avi, il quale all’età di 31 anni, nel mese di novembre dell’anno 1892, si unì ad altri suoi compaesani per espatriare nella “Merica”.  Al porto di Palermo si imbarcò sul piroscafo Bolivia, una nave a vapore con tre alberi ed una ciminiera, che poteva trasportare poco più di 1000 passeggeri e viaggiava ad una velocità di 13 nodi, ovvero circa 24 chilometri orari. Il bastimento approdò nel porto di Ellis Island, nella baia di New York, il 7 dicembre successivo. Come faceva la maggior parte degli italiani appena arrivati, si trasferì a Manhattan, e precisamente al numero 262 di Elizabeth Street, nel quartiere di Little Italy. Nell’incertezza di trovare in quella società sconosciuta una sistemazione che in prospettiva gli assicurasse un avvenire migliore, come era prassi fra i migranti, lasciò a Campofelice di Fitalia la famiglia, la moglie e il figlio Filippo, nato nel 1890, con i quali si ricongiunse qualche anno dopo. Non si conosce il lavoro iniziale intrapreso ma, certamente, Michelangelo da calzolaio, mestiere ereditato dal padre prima di svolgere l’attività di pastaio, seppe cogliere le opportunità giuste e divenne importatore di prodotti dalla madrepatria e successivamente imprenditore immobiliarista, attività che gli procurarono molta ricchezza. Quest’ultimo lavoro trova riscontro da quanto dichiarato nel 1925 dallo stesso Michelangelo per il rilascio del passaporto ove è riportato “seguo l'attività di agente immobiliare e sto per andare all'estero temporaneamente”. Dallo stesso documento si viene a conoscenza che egli era stato in Italia dal maggio 1913 al 19 maggio 1914. Cosa sia venuto a fare nella madrepatria in questo lungo periodo non è noto. Siamo certi, tuttavia, che fece ritorno a Campofelice.  Il rientro in America avvenne a bordo del bastimento Kaiser Franz Josef I e con le comodità della prima classe. In sua compagnia la sorella Giuseppa che lasciava Campofelice certamente per ricongiungersi al marito Leonardo Lazio, che era emigrato in America l’anno prima. Il figlio Filippo (Philip) studente presso la Princeton University, conseguita la laurea in giurisprudenza, fu un avvocato molto conosciuto e stimato; capitano dell’Aviazione americana nella prima guerra mondiale. Intraprese la carriera politica arrivando a ricoprire la carica di presidente della potente associazione Sons of Italy in America, ordine dei figli d'Italia in America e a candidarsi a sindaco di New York, avendo come avversario Fiorello La Guardia, l’onesto ed efficiente primo cittadino della metropoli, del quale divenne intimo amico. Filippo sposò la torinese Enrica Carello dalla cui unione nacque Michael Nicholas Salvatore, ovvero il celeberrimo Mike Bongiorno (N.Y. 1924 – Monte Carlo 2009), colui che ha fatto la storia della televisione italiana. Domenico Gambino

Il “sogno americano” a Villafrati


Il “sogno americano” a Villafrati nacque alla fine degli  anni '80 dell’Ottocento. I primi a partire furono contadini e braccianti che avevano lavorato per più di tre anni nei cantieri per la costruzione della ferrovia Palermo-Corleone, chiuso nel 1886. Assieme a loro emigrarono artigiani come il calderaio Luciano Pollaccia, che avendo subito l’amputazione di un braccio per un infortunio sul lavoro ritornò in paese e s'improvvisò scrivano. Nel 1893 divenne il segretario del Fascio dei lavoratori e negli anni successivi attivista anarchico anche nei paesi vicini. Segno di nuova coscienza di classe, il Fascio dei lavoratori di Villafrati si costituì a causa dell'esplosione demografica e della crisi agraria, aggravate dalle difficoltà dell'artigianato e dalla chiusura dei lavori di costruzione della linea ferrata. Diversi contadini e artigiani che partirono dopo lo scioglimento dei Fasci (Degliuomini, Oddo, Giannobile) restarono nel Nuovo Mondo. Altri tornarono in paese e  comprarono qualche ettaro di terra. Tra questi il muratore Eugenio Anzalone, che nel luglio 1943 fece per primo da interprete ai militari americani occupanti. Nel 1917 era divenuto sindaco di Villafrati un altro “americano”: Gaspare Tedeschi, ex socio influente del Fascio di Villafrati, oltre che fondatore e presidente onorario di quello di Baucina. Nel 1898 don Gasperino era, però, già mafioso. Emigrato pochi anni dopo negli USA, si legò a Vito Cascio Ferro e alla Mano Nera e implicato nelle indagini per l’omicidio di Joe Petrosino. Approdato con la famiglia in America attorno al 1890, Ignazio Mercante (1861-1941) fu bracciante e poi mezzadro in una colonia agricola di Thibodaux (Louisiana), dove nacquero sei dei suoi dieci figli. Il quinto, Salvatore detto Turiddu, dichiarato tardivamente a Villafrati come nato nel 1901 a «Pipitò Aux (America)», nel secondo dopoguerra guidò i contadini nella lotta per la riforma agraria e aderì al Partito comunista; eletto sindaco, si meritò l’appellativo di “patri di li puvureddi”, padre dei poveri. Il capo del Fascio di Baucina Salvatore Pampinella, emigrato all'inizio del '900 a New York, progettò con un avvocato americano la colonia agricola New Palermo in Alabama. Si trattava di una truffa a danno dei contadini che inseguivano il miraggio della terra. Uno di loro lo uccise il 24 ottobre 1904. G.O.

Il naufragio dell'Utopia

Il piroscafo a vapore Utopia, di proprietà dell’Anchor Line di Glasgow, partito da Trieste nel 1891 con pochi passeggeri, ne aveva imbarcati sette a Messina e 57 a Palermo. A Napoli salirono a bordo 727 tra uomini e donne provenienti dalle regioni del centro-sud. Si contarono in totale 813 passeggeri, di cui 661 uomini, 85 donne, 55 ragazzi, 12 poppanti. I membri dell’equipaggio erano 68, comandati dal capitano John Mac Keague. Il dodici marzo la nave partì da Napoli diretta a New York. Dopo cinque giorni di navigazione, intorno alle 18, arrivò a Gibilterra. Entrò nel porto sotto vapore, a mezza velocità, con un mare in forte tempesta e col buio che impediva la visibilità delle altre presenze in mare. Per una falsa manovra, l’Utopia andò a urtare con la corazzata inglese Anson, riportando sulla mezzeria uno squarcio di circa dieci metri. Fu dato subito l’allarme, le altre navi presenti accesero i fanali per illuminare la zona dell’impatto e gettarono in mare le scialuppe di salvataggio.  A terra ci fu subito grande eccitazione e confusione. Le grida dei naufraghi erano altissime ma sporcate dal mare grosso. Molti passseggeri e marinai si gettavano in mare cercando di salvare qualche amico o parente caduto in acqua. Alla fine i morti furono 537 secondo i dati ufficiali, anche se pare ci fossero a bordo molti clandestini. Il governo italiano si preoccupò di onorare il coraggio di due marinai inglesi annegati nel tentativo di salvare dei passeggeri, ma nessuno si preoccupò di un risarcimento adeguato alle famiglie degli emigranti deceduti. Il governo risarcì le famiglie delle vittime con un sussidio di circa 23 lire per ogni legittimo erede, mentre la compagnia armatrice non sborsò mai un centesimo. Il capitano Mac Keague fu assolto da ogni responsabilità ed ebbe persino restituita la licenza di comandante. Dei 294 salvati, 137 tornarono a Napoli e furono alloggiati nelle locande a spese della stato italiano. Altri 153 ripresero la rotta per New York con il piroscafo Anglia. Pare che all’arrivo della nave in questo porto, qualcuno dei parenti in attesa, non vedendo arrivare i propri congiunti, si sia gettato in mare per la disperazione. Le vittime siciliane furono 35, di cui 13 provenienti da Mezzojuso, 9 da Termini Imerese, uno da Casteltermini (AG), uno di Lucca Sicula e 11 da Marianopoli (CL).  Le vittime di Mezzojuso furono: Francesco Bausano di anni 41,  Francesco Burriesci di 24, Maria Burriesci di 5, Vincenza Burriesci di 7, Giuseppe Chetta di 9, Giuseppe Chetta di 51, Angela Cullotta di 23, Ciro Di Miceli di 26, Rosa Figlia di 42, Antonina La Gattuta di 35,  Nicolina Burriesci di  12, Dario Mistretta di 7, Provvidenza  Mistretta di 1 anno. R.L.

La partenza dell’operaio per l’America

Chi scompiglio chi c’è tra li paisi
tra li famigli e tra tutti li casi.
Dipò chi l’America s’intisi
pi la partenza ognunu fa li basi.

Cu si pripara mutanni e cammisi,
cu nnavi grana si ‚mpigna li casi.
Afflittu cu ‚a famiglia s’allicenza
e poi pi l’America partenza.

O quantu è tinta ‚sta brutta spartenza
lassari li famigli a li duluri.
Io stesso ca lu cuntu mi cunfunnu
ca di ccà si v’attacca a n’atru munnu.

Perciò tutta sa genti pi campari
all’America tutti n’avissimu a ghiri
ca ddà nni issimu a situari
e mangiassimu a nostru piaciri.

All’America su mezzu li dinari
e si mania qualchi cincu liri.

Domenico Azzarello
La partenza dell’operaio per l’America, 1906

Le camicette bianche delle immigrate

Il 25 marzo 1911 scoppiò a New York l’incendio alla Shirtwaist Triangle Factory, che costò la vita a 146 persone, in maggioranza giovani donne immigrate tra cui 38 italiane. I proprietari, Max Blanck e Isaac Harris, erano immigrati ebrei che avevano fatto fortuna con la produzione delle camicette a vita stretta e maniche a sbuffo, come dettava la moda del tempo. Le misure antincendio non erano rispettate e mentre alle ragazze era proibito cantare, agli operai maschi era consentito fumare. L’incendio devastò il laboratorio situato nel centro di New York all’ottavo e nono piano dell’Asch Building in Washington Square. Molte operaie, rimaste intrappolate nel laboratorio la cui porta, come di consueto, era stata chiusa a chiave per evitare che le operaie si prendessero la libertà di uscire, si lanciarono dalla finestra schiantandosi al suolo. Amiche e sorelle si gettarono nel vuoto abbracciate; alcune famiglie furono decimate. E mentre i getti degli idranti raggiunsero solo il sesto piano, i teli e le coperte stese da pompieri e passanti non ressero al peso delle ragazze e si lacerarono. La tragedia sollevò un’ondata di indignazione e ai funerali che si svolsero sotto la pioggia battente parteciparono 400.000 persone, un decimo della popolazione della metropoli. Il 30 giugno 1911 venne approvata la legge che istituiva la Factory Investigation Committee che ascoltò oltre 200 testimoni, ma al processo che seguì, e che durò solo 23 giorni, i proprietari furono assolti da una giuria di soli uomini che arrivò al verdetto in sole due ore. Nei quattro anni successivi, grazie alla mobilitazione femminile, di attiviste sindacali e riformatrici si approvarono otto leggi in tema di lavoro. Grazie all’impegno della Women’s Trade Union League, il sindacato femminile che riuniva la lavoratrici di diversi settori, le donne italiane superarono la loro resistenza a unirsi all’organizzazione.
(da BRUNA BIANCHI, Università Ca Foscari di Venezia, 2017).

4 Luglio 1909. Nasce a Bolognetta Tommaso Bordonaro

Tommaso Bordonaro e Anna Composti
Tommaso Bordonaro nacque a Bolognetta in provincia di Palermo il 4 Luglio del 1909. Una data importante per uno che avrebbe vissuto sessanta anni negli Stati Uniti d’America: ogni anno avrebbe festeggiato insieme la sua nascita e l’indipendenza del paese in cui era andato a vivere. Quando arrivò il 4 Luglio a Napoli con una nave proveniente dagli Stati Uniti scambiò i giochi pirotcnici organizzati dagli americani che stavano a Napoli con una festa per il suo compleanno. I Genitori erano Rosa Di Peri e Giuseppe Bordonaro. Quest’ultimo era stato diverse volte negli Stati Uniti, dove aveva lavorato nella costruzione di strade ferrate. Quando fu licenziato, la ditta tedesca per la quale aveva lavorato gli regalò un orologio di cui molto orgoglioso. Quando sposò Rosa ed era tornato ancora in America, scrisse per convincerla a raggiugerlo. Ma lei non ne voleva sapere e rispose che sarebbe andata negli Usa quando si sarebbe costruito un ponte di rose, cioè mai. Così Giuseppe fu costretto a tornare in Sicilia e a ritornare contadino. Dovette rispondere alla cartolina precetto che lo richiamò alle armi e dovette affrontare l’epideia di spagnola che lo colpì dopo la guerra, portandolo quasi alla morte. Nel frattempo il piccolo Tommaso era cresciuto vedendo molto poco il padre ma lavorando con lo zio Pietro a pascolare pecore e capre. Aveva anche un gruzzoletto, che fu sacrificato per consentire al padre di andare a Corleone a comprarsi un asinello da lavoro. Nel 1915 Tommaso cominciò a frequentare la scuola elementare ma, i suoi studi si interruppero precocemente quando il maestro fu richiamato alle armi e la scuola chiuse. Fu così che Tommaso non andò più a scuola e imparò a leggere e a scrivere durante le lezioni serali tenute dalla maestra Giuffrida a casa sua, a pagamento.  Negli anni della guerra e del dopoguerra Tommaso andava in campagna a raccogliere erba per il sostentamento della famiglia, che nel frattempo aveva raggiunto un alto numero di figli. Nel complesso Tommaso ebbe sei fratelli, tutti maschi, messi al mondo da Giuseppe e Rosa nel tentativo vano di avere una figlia femmina. Verso i 18 anni, Tommaso si innamora di una ragazza chiamata Rosa ma Teresa all’anagrafe: è poverissima e vive con la madre nel vicino paese di Marineo. La scelta non è condivisa dal padre di Tommaso che, prospetta al figlio matrimoni di interesse con ragazze che dispongono di una dote più o meno considerevole. Tommaso, però non ne vuol sapere nulla e sceglie secondo i suoi sentimenti. Durante il servizio militare il padre arriva a sciogliere il fidanzamento ad insaputa del figlio, quando si accerta delle condizioni miserevoli in cui versa la mamma della fidanzata Rosa. Si tratta di un duro colpo per Tommaso, che organizzerà la fuga per evitare le spese e i rimproveri del padre. Anche la nuova coppia metterà al mondo due figli, ma alla terza gravidanza Rosa organizza un aborto che ha come conseguenza la sua morte, a ventisette anni di età. Tommaso è colpito duramente dalla tragedia e cerca una persona che possa occuparsi dell’educazione dei figli. Sceglie così di sposare Anna, che in seguito ad un rapimento ha rifiutato il “matrimonio riparatore“ denunciando e facendo condannare il rapitore. Tommaso lavora come affittuario presso il feudo Stallone, dove prende in affitto alcuni poderi dal conte San Marco, Principe di Mirto, titolare di un grande baglio nella vicina Villafrati. Allo scoppiò della Seconda guerra mondiale Tommaso vedrà partire due fratelli per il fronte, ma non partirà perchè è il maggiore sostegno alla famiglia. Alla fine dello scontro militare, la Sicilia è percorsa da grandi movimenti di braccianti e piccoli contadini che chiedono la terra per potere lavorare. Anche nel latifondo dove Tommaso coltiva i poderi si sviluppano mobilitazioni tendenti a far applicare i decreti che consentono di concedere alle cooperative le terre incolte o mal coltivate. Tommaso comprende che la situazione sta per mutare e che sarà difficile per lui dare ai figli un avvenire diverso dal suo. Così decide di lasciare la Sicilia e andare a cercare oltre oceano migliori condizioni di vita. Ha già dei fratelli in Argentina e negli Stati Uniti: sceglie di andare in America del nord perchè la moglie Anna è nata a New York ed ha diritto ad entrare di nuovo nel territorio americano. La famiglia parte nel marzo 1947 e si stabilisce nel New Jersey presso una famiglia di parenti. Sarà difficile trovare lavoro perchè la neve blocca tutto, ma sarà difficile anche trovare casa perchè nessuno vuole affittare appartamenti ad una famiglia numerosa. Così il primo inverno trascorrerà per la famiglia in uno scantinato senza riscaldamenti, dove i bambini si ammaleranno. Tommaso trova lavoro presso un cimitero giudaico, ma contemporaneamente presso una fabbrica di pasta e presso una stazione ferroviaria. „Lavorando da cavallo“ , come scrive lui stesso, riuscirà a nutrire i suoi e a comprare un edificio che trasforma nella sua casa, a Garfield, dove vivono molti emigrati originari del paese natale. Durante il viaggio in nave, nel momento in cui il mare agitato ha causato forti timori nei passeggeri, Tommaso ha fatto una promessa a San Giuseppe, impegnandosi, nel caso il viaggio andasse a buon fine, a raccogliere ogni anno presso i compaesani offerte in denaro da inviare agli orfanotrofi italiani. Così Tommaso fa annualmente il giro per raccogliere queste somme e mantiene così i contatti con i conterranei che abitano nel New Jersey e a New York. In quest’ultima città rimanevano gli epigoni dei soci della società di Sant’Antonio da Padova che a Manhattan aveva racolto dal 1902 gli emigrati bolognettesi offrendo loro un punto di riferimento e un social club dove trascorrere il tempo libero. Negli anni ‚60 questa comunità si era dissolta e i soci trasferiti in zone lontane. Occorreva quindi trovare una nuova sistemazione per la statua del Santo patrono ormai custodita nella cantina di un palazzo di Manhattan. Gli ultimi soci si rivolgono allora a Tommaso Bordonaro, ritenuto persona attiva e fortemente religiosa. Così nel 1964 un gruppo di siculo-americani guidati da Tommaso si occupa del trasloco in automobile della statua del santo che arriva a Garfield, città di grande tradizione industriale nel settore tessile. Qui il club viene rifondato con atto notarile e ospitato in un edificio appositamente realizzato nel centro della città con un piano per il tempo libero ed uno per il culto religioso. Tommaso non può però occuparsene in prima persona, dati i suoi impegni di lavoro e il suo carico familiare. S.L.

Luglio 1943. Siculo-americani a Mezzojuso

L’Operazione Husky, iniziata prima dell’alba del 10 luglio 1943 con lo sbarco degli anglo-americani sulle coste della Sicilia meridionale e conclusa il 17 agosto, fu in un certo senso “combattuta” anche negli USA, ma con le armi della propaganda. Vennero diffuse infatti notizie ottimistiche sull’andamento della liberazione della Sicilia, ma ci si preoccupò anche di far breccia sui numerosi immigrati siciliani affinché la campagna fosse valutata positivamente. Il tutto attraverso proiezioni cinematografiche frutto di filmati velocemente arrivati dalla Sicilia e altrettanto velocemente montati negli States. Il 3 agosto Mezzojuso è in subbuglio. Gli americani sono arrivati qualche giorno prima, prendendo possesso del palazzo comunale. Ma ora sono tornati armati, oltre che di macchina fotografica, di una cinepresa, per girare una sequenza che mostri l’ottima accoglienza riservata agli americani da parte dei mezzojusari. Con loro c’è il caporale della 45ͣ divisione di fanteria Nicola Di Marco, nato a New Work e arruolato con l’esercito americano, ma i cui genitori in quel periodo si trovano a Mezzojuso. L’operatore gira alcune sequenze che mostrano l’arrivo in paese, l’accoglienza festosa dei mezzojusari nella piazza Romano e finalmente l’abbraccio del caporale al padre Nicola, alla madre Concetta e alla sorella Giuseppina, davanti alla casa di via Di Marco. In serata si suggella l’amicizia siculo-americana con una festa da ballo a cui partecipano amici dei Di Marco e i militari americani.
In realtà tutte le sequenze sono state preparate precedentemente. Infatti a ben guardare, nella foto dell’abbraccio si notano chiaramente i segni del rossetto sulle labbra della sorella Giuseppina e l’abbigliamento elegante del padre Nicola. Ma più di tutto vale la testimonianza di un anziano signore, Nicola Lala, che alcuni anni fa ricordando l’episodio e guardando le foto esclamò con le lacrime agli occhi: “Ero tra i ragazzini presenti, seguimmo tutto il corteo fino alla casa dei Di Marco, lì ci fu un po’ di confusione e poi un americano gridò in italiano: ‘Potete uscire’. Si aprì la porta e ci fu l’abbraccio”. Dell’episodio sono rimaste alcune foto e la ripresa cinematografica. Il materiale è stato pubblicato dal giornalista e scrittore Ezio Costanzo nel volume La guerra in Sicilia 1943 e nel film-documentario Sicilia 1943. G.D.M.

Insediato il Comitato Scientifico del Museo delle Spartenze

Santo Lombino
Si è insediato il Comitato Scientifico del Museo delle Spartenze. La riunione di insediamento è avvenuta presso i locali del Museo, con la presenza del sindaco di Villafrati Francesco Agnello, del direttore scientifico del Museo delle Spartenze Santo Lombino e del componente del comitato di gestione Giuseppe Marte.
Il Comitato Scientifico, che si riunisce almeno due volte l’anno, ha il compito di stabilire gli indirizzi  generali del Museo ed elaborare proposte e programmi specifici di attività da sottoporre all'approvazione del Comitato di gestione. Il Comitato è composto dal Sindaco del comune di Villafrati o dall’assessore incaricato, dal Direttore scientifico e da venti componenti membri individuati dall’Amministrazione comunale e scelti tra gli esperti nelle tematiche migratorie, docenti  universitari e esponenti di enti di ricerca; studiosi di Villafrati e dei comuni dell’area geografica di “Rocca Busambra”; personalità segnalate dalle Associazioni e/o Enti pubblici della suddetta area geografica. Nella riunione di insediamento gli studiosi hanno espresso diverse idee e suggerimenti che permetteranno un miglioramento e una crescita del Museo, sia dal punto di vista culturale e scientifico che da quello della gestione amministrativa e finanziaria. Infine, spunti significativi hanno riguardato l’organizzazione di eventi ed attività culturali utili a far conoscere il Museo e a renderlo accessibile ad un pubblico molto ampio ed eterogeneo, che, attraverso il Museo, può avere l’occasione di conoscere e approfondire  un tema così presente in tutte le famiglie siciliane. Del comitato scientifico è stata chiamata a far pure parte Laura Verduci che lavora con “Emergency” e Adham M. Darawsha, emigrato dalla Palestina, medico, già Presidente della Consulta delle Culture del Comune di Palermo. Ciro Guastella è stato invece emigrato per decenni negli Stati Uniti d’America, mentre Valentina Richichi è antropologa ed esperta di letteratura. Docenti e ricercatori presso vari Dipartimenti dell’Università degli Studi di Palermo che fanno parte del Comitato scientifico sono: Marcello Saija, docente di Storia delle Relazioni Internazionali e di Storia delle Istituzioni Politiche, Direttore della Rete dei Musei siciliani dell’Emigrazione; i docenti di Sociologia Marco Antonio Pirrone, Lorenzo Ferrante,  Santa Giuseppina Tumminelli, Fabio Massimo Lo Verde, Michele Mannoia. Dai comuni e dalle associazioni dell’area di Rocca Busambra provengono gli studiosi: Roberto Lopes, Giuseppe Di Miceli, Giuseppe Oddo, Pietro Cuccia, Onorina Agnello, Nuccio Benanti, Franco Vitali, Domenico Gambino, Francesco Virga, Anna Spica. G.M.

Storia di Carmela Galante, detta Millie

Carmela Galante nacque nel 1910 a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani,  da Gaspare e da Giuseppa Greco. La madre morì poche settimane dopo il parto, mentre il padre, in seguito alla fine della sua piccola flotta navale, si tolse la vita lasciando quattro figli. Nel 1920 la sorella Rosalia sposò un giovane, Francesco Milazzo, già emigrato negli Stati Uniti, dove i due decisero di tornare, portando con loro Carmela, che aveva allora 11 anni. Quando arrivarono all’isola di Ellis Island, lei dovette rimanere da sola due settimane nei dormitori freddi e bui, con persone sconosciute e senza un minimo di conoscenza della lingua inglese: il cognato doveva dimostrare di avere risorse economiche per mantenerla. I tre si stabilirono a New York dove a quindici anni, Carmela, detta Millie, si impiegò in un’azienda tessile, dove lavorava anche quindici ore al giorno cucendo capi di vestiario. Diventò attivista del sindacato delle donne impegnate nel settore  tessile e dell'abbigliamento. Negli anni Venti Millie sposa Vincenzo Costa, anche lui originario di Castellamare e accudisce la famiglia della sorella, morta nel 1930. Negli anni ‘40 un grande successo professionale: ottenne un posto di lavoro nell’esclusivo atelier di Nettie Rosenstein, sarta d’alta moda che produceva pezzi unici per clienti importanti, come Mamie Eisenhower, moglie del Presidente degli Stati Uniti. Colpita da un tumore, Millie subisce diversi interventi chirurgici ed è sottoposta a cure radioterapiche che la stancano e la indeboliscono. Ha seri problemi agli occhi e soffre di dolori, vertigini e nausea. Nel gennaio 1964 scrive quaranta poesie in siciliano, in cui si riportano alla memoria i luoghi dell’infanzia rivisitati nel 1958: il castello del suo paese natale e le località di Marinella e Fraginisi, oltre che Mondello e Monte Pellegrino a Palermo. Millie racconta la vicenda del suo primo impatto con l’America, i suoi rapporti con i familiari ed il marito, rende esplicito il suo ritorno alla fede cattolica, dialoga a distanza con la madre che non ha mai conosciuto. Trasferitasi col marito da Brooklyn a Scottsdale, Carmela Galante Costa morì nel 1968. Le poesie, conservate dalla nipote Hildegard Nimke Pleva, furono pubblicate nel 2011 dall'ANFE nel libretto “Cu tia avissi avutu furtezza e casteddu” con scritti della stessa nipote, di Fulvia Masi, Nicola Grato e la curatela di Santo Lombino.

Da Campofelice al Nuovo Mondo

Le ragioni che spinsero gli abitanti di Campofelicedi Fitalia a emigrare verso le terre d’oltreoceano rientrano tra quelle che pervasero le comunità rurali della Sicilia del grano negli ultimi decenni dell’Ottocento. Le prime partenze verso l’America si annotano nel 1883 quando alcuni giovani contadini (Antonino Cutaia, Giuseppe Terranella, i fratelli Andrea e Giovanni La Barba, Giuseppe D’Orsa, Salvatore Sangiorgio, Natale Sampiero, Francesco Cuccia, Vincenzo Granatelli e Domenico Plescia) si imbarcarono su un bastimento con approdo New Orleans. Ognuno di loro, in adempimento della normativa che restringeva la concessione dei passaporti, era coperto da fidejussione di lire 500 corrisposta all’Amministrazione governativa a garanzia nel caso in cui avessero bisogno di denaro per l’eventuale rimpatrio. Fu, comunque, a partire dal 1892 che le partenze verso le terre d’oltreoceano (Stati Uniti d’America, pochissimi in Argentina) divennero abituali. Una numerosa colonia si formò a Kansas City (Missouri) dove, nel 1931, venne fondato il “Club Campofelice di Fitalia”, con finalità di mutuo soccorso. Il club è stato rifondato nel 2012 per costituire occasione di incontro fra gli oriundi campofelicesi: nel direttivo Tony Rustici, presidente, e Jody Valet (famiglia Brancato) segretaria, promotrice dell’iniziativa. I primi arrivi nella baia di New York si annotano nel 1892: nella metropoli si formò un’altra numerosa comunità di campofelicesi. Altri continuarono a stabilirsi a Kansas City e in varie città e tra queste Chicago (Illinois), Dallas (Texas), Philadelphia (Pennsylvania). Furono parecchi coloro che, messo da parte un gruzzoletto di denaro, fecero ritorno in paese e impiegarono i loro guadagni per l’acquisto della casa e di una consistente proprietà terriera. I più numerosi rimasero nel Nuovo Mondo che riservò loro una vita dignitosa e talvolta un vero e proprio successo economico e sociale. Le partenze verso gli USA hanno conosciuto una nuova impennata alla fine della 2^ guerra mondiale e fino agli anni Settanta del passato secolo con destinazione le località dove già si erano insediati parenti e compaesani. A queste nuove partenze è legata, nel 1976, la fondazione a New York del “Club Campofelice di Fitalia” che entrava a far parte della «Federazione Italiana Queens». Come presidente veniva eletta la giovanissima Emilia Nuccio, promotrice dell’iniziativa. Fra i nuovi emigrati si ricorda Salvatore Biancavilla a Kansas City che, acquisita la cittadinanza americana, si ritrovò combattente nella guerra del Vietnam.