Oh Italia


Oh Italia,
l’Italia che fu in grado di asciugare
le lacrime di una madre che piange il suo
bambino nel deserto.
una madre che piange mentre i trafficanti
la torturano
come fosse il pasto del giorno.
Oh Italia,
l’Italia che ha salvato l’umanità
per mani dei volontari sul mar Mediterraneo
Oh Italia,
l’Italia che mi ha accolto sulla sua terra,
quando ero senza terra.
l’italia che mi ha dato le scarpe,
quando ho camminato scalzo.
l’Italia che mi ha vestito,
quando ero senza vestiti.
Oh Italia,
l'Italia che mi ha curato
quando ero malato.
L’Italia che mi ha protetto,
quando ero senza riparo.
L’Italia dove rinasce la mia coscienza
portata via nei paesi del deserto.
Oh Italia,
l'Italia che mi mostra la via per il futuro,
l’Italia che mi offre la strada per il successo
Pensi che ti deluderò?
No, non lo farò, non sarò ingrato.
Oh Italia,
dalle belle città,
dalle belle donne e bellissime spiagge,
l’Italia che mi da ancora una speranza,
pensi che ti abbandonerò?
No, ti sosterrò alla radice della tua bella pianta.
L’Italia che mi spinge
al mio bellissimo sogno,
che sogno,
che sogno…
         Thiam Habib

Questa poesia è stata scritta da Thiam Habib, giovane proveniente dalla Guinea, che ha attraversato il deserto del Sahara e si è imbarcato su un gommone in Libia. Sbarcato l’anno scorso in provincia di Trapani, ha richiesto asilo al nostro paese e vive in una comunità di accoglienza a Bolognetta. Frequenta il liceo linguistico presso l’Istituto superiore “Regina Margherita” di Palermo. 

Palermo: gli indù e Santa Rosalia

La realtà palermitana, da anni ormai molto variegata, è fortemente interessata anche dalla  comunità induista. Essa si compone di due gruppi: uno proveniente dall’isola di Mauritius e l’altro dallo Sri Lanka, noto come Tamil. I Mauriziani sono spinti ad abbandonare la propria terra per motivi di ordine economico, invece, i Tamil, emigrano dalla propria terra perché costretti dalla guerra e dalla conseguente crisi economica. Ciò che accomuna i due gruppi è la fede religiosa, l’induismo: i due gruppi formano un’unica comunità proprio per “l’aderenza al dharma” che ne costituisce l’elemento identitario. Gli hindu di Palermo soffrono del fatto che non sia mai stato concesso loro un luogo di culto, perché ciò s’identifica con un non riconoscimento della loro identità. Si è assistito al riadattamento della religiosità della società di accoglienza al proprio universo religioso, attraverso la pratica del culto di Santa Rosalia. Alla base del culto vi sono due fondamentali tratti della cultura indù: la pratica della tirtha-yatra o del “pellegrinaggio” ai guadi sacri e il culto della dea madre. Il culto di Santa Rosalia si rivela come un caso di adattamento della propria religiosità a quella della società di accoglienza. I pellegrinaggi sono praticati rigorosamente a piedi, il più delle volte scalzi, alla ricerca del silenzio e dell’ascesi verso il sacro, ma volti anche al conseguimento di una purificazione da ottenere attraverso l’azione penitenziale, la fatica e il sacrificio necessari per accostarsi al sacro. Secondo le testimonianze di alcuni tamil, il rituale dell’acchianata nel giorno di Santa Rosalia è poco valorizzato dalla comunità, a causa dell’eccessiva affluenza di gente che disturberebbe fino a rendere vana l’ascesi stessa, il cui scopo è il raggiungimento di una dimensione ‘altra’, ed il cui elemento connotativo principale è proprio la pace, da raggiungere attraverso il silenzio e la preghiera. La venerazione dei santi vale a surrogare ed a vincere le difficoltà quotidiane, e nello stesso tempo a rifondare il senso dell’identità comunitaria, e a non fermarsi agli aspetti esteriori delle religioni ma coglierne la funzione, che è quella di “raggiungere le coscienze, di tonificarle e di disciplinarle” (Durkheim 1960).
Onorina Agnello

La Sicilia terra di frontiera

Il fenomeno dell’immigrazione si è affermato in questi anni come nodo cruciale per ogni serio tentativo di comprendere, e possibilmente prevedere, le dinamiche di sviluppo delle società contemporanee. A partire dagli anni novanta i flussi migratori, verso il nostro Paese si sono significativamente intensificati rendendo l'Italia uno dei punti primari di approdo E' in quegli anni che l'opinione pubblica presta sempre più attenzione al fenomeno diventando tema di dibattito sociale, anche se, in questa fase, il fenomeno riguarda ancora aree limitate.  Successivamente, il fenomeno ha comportato l’assunzione di stereotipi e generalizzazioni con il risultato di considerare la presenza dello straniero  come un tema molto spinoso o come pericolo e  minaccia all’integrità della identità nazionale. Infatti, molti sono i commenti  negativi riguardo agli sbarchi di clandestini sulle coste del Meridione, centinaia sono i giudizi di condanna di fronte a notizie di cronaca nera che vedono coinvolti gli immigrati. Il fenomeno delle migrazioni ha interessato soprattutto la Sicilia che, fin dagli anni ’60 del secolo scorso, data la sua centralità e la sua storia millenaria, è stata sempre crocevia di migranti proveniente dall’Europa, dall’Asia e dall’Africa. I primi movimenti migratori risalgono agli anni seguenti il terremoto del Belice, nel 1968, soprattutto nelle zone del trapanese ed a Mazara del Vallo, dove gli immigrati trovarono occupazione nei settori agricoli e nella pesca. Negli anni ’70 si assiste ad un mutamento delle traiettorie di provenienza dei flussi perché riguardano in preminenza donne di origine africana o filippine, attratte da alcuni settori del mercato (collaborazione domestica). La mobilità verso la Sicilia, nell’ultimo decennio, ha conosciuto il volto peggiore della globalizzazione, date le politiche di chiusura e respingimento nei confronti dei migranti da parte dell’Europa. A partire dal 2011 la Sicilia  è diventata uno dei principali fortini da protezione della trincea di guerra che il capitalismo globale e la fortezza Europa affrontano contro i migranti, com’è testimoniato dalla numerosa presenza di CPTA (centri di accoglienza di  permanenza temporanea), dall’inarrestabile cronaca di morte dei migranti naufragati o uccisi nel canale di Sicilia o, come è accaduto nel Deserto Libico, dalle politiche di respingimento dei migranti da parte  italiana a seguito di uno specifico accordo con la Libia.  L’impreparazione ad accogliere e ad inserire in schemi ben codificati, all’interno della propria struttura, individui provenienti in massa dall’esterno,  mette in crisi le città. Questa impreparazione si trasforma spesso nel rifiuto dell’altro provocando situazioni di marginalità non solo sociale, economica e politica ma anche spaziale in quanto, nella maggior parte dei casi, i loro spazi abitativi sono situati in zone periferiche o degradate. 
Onorina Agnello

Le donne e la migrazione

L’emigrazione è stata tradizionalmente descritta come un’esperienza al maschile, trascurando il flusso migratorio delle donne, a lungo giustificata con la scarsa considerazione del loro vissuto. Diverse per provenienza, progetto migratorio, età e posizione nella famiglia, la maggior parte di esse, avevano alle spalle le medesime esperienze: vissute in un mondo patriarcale dominato da rigidi rapporti di autorità, nessuna dimestichezza con la scrittura, nessuna conoscenza linguistica. L’adattamento alla nuova realtà fu difficile, faticoso e lento ma anche foriero, se non di emancipazione, di profondi mutamenti nella loro vita e nelle loro aspirazioni.
 Appare piuttosto elevata la percentuale di donne, spesso ragazze e bambine, che si imbarcano per il Nuovo Mondo. A livello nazionale verso gli Stati Uniti, la presenza femminile fu consistente e in continuo aumento: dal 21,1% degli anni 1881-1890, al 30,6% nel 1911-20 per raggiungere quasi il 40% negli anni tra il 1921 e il 1930. Le partenze maschili erano maggiori rispetto a quelle femminili. Analizzando un campione di 1203 migranti, dal paese di Villafrati, che partì negli anni tra il 1892 e il 1924, il 61% è di genere maschile e il rimanente 39% è di genere femminile. Si può osservare, dunque, che nel primo periodo la percentuale maschile di emigranti è pari al 61% e resta tale anche nel secondo periodo. Lo stesso accade per quanto riguarda la percentuale riguardante l’emigrazione femminile che è pari al 39%, sia nel primo che nel secondo periodo.
È interessante rilevare che il 74% delle donne partono nel secondo periodo, ovvero quando l’adozione di diversi provvedimenti, dal 1917 al 1924, convinse molte donne ad avviare le pratiche di ottenimento del passaporto per sé e i propri figli minori, in quanto i figli maggiorenni, in tempi precedenti, avevano già raggiunto il genitore. Le donne partirono con la prospettiva di restare segnando una tendenza ben visibile a partire dall’inizio degli anni ’20 quando la rigidità delle frontiere interruppe il regolare andirivieni degli uomini e rafforzò la scelta di stabilirsi all’estero.
Sia che fossero emigrate sole, in gruppo o con la famiglia, sia che la loro scelta fosse autonoma o che partissero in seguito ad una decisione maschile, l’abbandono del paese natale, la vita e il lavoro in un paese lontano indussero mutamenti profondi nella loro vita e nelle loro aspirazioni.
Le donne giovani e le ragazze erano le più desiderose di lasciarsi alle spalle le fatiche dei lavori dei campi e la rigida sorveglianza della famiglia e della comunità. Molte di loro partirono per raggiungere parenti o per sposare un connazionale che molto spesso conoscevano solo attraverso una fotografia.
Onorina Agnello

Accordo tra Museo delle Spartenze e Bellunesi nel mondo

Sabato 27 ottobre a Villafrati è stato siglato il protocollo di intesa per un patto di collaborazione tra Oscar De Bona, presidente dell'associazione "Bellunesi nel mondo" e il sindaco del comune di Villafrati, Francesco Agnello. Erano presente il prof. Giuseppe Sommario, direttore del Piccolo festival delle Spartenze di Paludi (Cosenza), Marcello Saija, direttore della "Rete dei Musei siciliani dell'emigrazione", Santo Lombino, direttore scientifico del "Museo delle Spartenze dell'area di Rocca Busambra". Il gemellaggio prevede la condivisione di percorsi formativi e didattici, scambio di esperienze e di materiali, cooperazione nelle attività espositive. Alla cerimonia è seguito lo spettacolo musicale "Mamma mia dammi cento lire" dell'associazione culturale "Prespettive Mezzojuso".

“Cu tia avissi avutu furtezza e casteddu” di Millie Galante

Nell’ambito della rassegna “Ottobre, andiamo. E’ tempo di migrare”, domenica 14 ottobre 2018, alle ore 16.30 presso il "Museo delle Spartenze dell'area di Rocca Busambra" con sede in corso San Marco a Villafrati, avrà luogo la presentazione del libro “Cu tia avissi avutu furtezza e casteddu” di Camela “Millie” Galante, seconda edizione trilingue.
Intervengono: Hildegard Nimke Pleva, pronipote dell’autrice e curatrice del volume, Nicola Grato, poeta e docente, Antonino Lodovisi, assessore alla cultura del Comune di Villafrati, Flavia Schiavo, docente presso l’ Università di Palermo, Marcella Croce, scrittrice, Elio Di Piazza docente presso l’ Università di Palermo, Santo Lombino direttore scientifico del Museo. A seguire, la proiezione del cortometraggio: “Meet Frank” di Paolo Paparcuri. Organizzano il Museo delle Spartenze, il Comune di Villafrati, il Teatro del Baglio.
Carmela Galante nacque nel 1910 a Castellammare del Golfo da Gaspare e da Giuseppa Greco.
La madre morì poche settimane dopo il parto, mentre il padre, in seguito alla fine della sua piccola flotta navale, si tolse la vita lasciando quattro figli.
Nel 1920 la sorella Rosalia sposò un giovane, Francesco Milazzo, già emigrato negli Stati Uniti, dove i due decisero di tornare, portando con loro Carmela, che aveva allora 11 anni. Quando arrivarono all’isola di Ellis Island, lei dovette rimanere da sola due settimane nei dormitori freddi e bui: il cognato doveva dimostrare di avere risorse economiche per mantenerla. I tre si stabilirono a New York dove a quindici anni, Carmela, detta Millie, si impiegò in un’azienda tessile, dove lavorava anche quindici ore al giorno cucendo capi di vestiario.
Negli anni Venti Millie sposa Vincenzo Costa, anche lui originario di Castellamare e accudisce la famiglia della sorella, morta nel 1930.
Negli anni ‘40 ottenne un posto di lavoro nell’atelier di Nettie Rosenstein, sarta d’alta moda che produceva pezzi unici per clienti importanti, come Mamie Eisenhower, moglie del presidente U.S.A.
Colpita da un tumore, Millie subisce diversi interventi chirurgici ed è sottoposta a cure radioterapiche che la stancano e la indeboliscono. Ha seri problemi agli occhi e soffre di dolori, vertigini e nausea. Nel gennaio 1964 scrive quaranta poesie in siciliano, in cui si riportano alla memoria i luoghi dell’infanzia (rivisitati in un viaggio in Sicilia del 1958): il castello del suo paese natale e le località di Marinella, Guidaloca, Scopello  e Fraginesi, oltre che Mondello e Monte Pellegrino a Palermo. Millie racconta la vicenda del suo primo impatto con l’America, rende esplicito il suo ritorno alla fede cattolica, dialoga a distanza con la madre che non ha mai conosciuto.
Trasferitasi col marito da Brooklyn a Scottsdale, Arizona, si spense nel 1968.
Le poesie, conservate da Hildegard Nimke Pleva, nipote della sorella Rosalia, furono pubblicate nel 2011 nel libretto “Cu tia avissi avutu furtezza e casteddu”e vengono adesso ripubblicate in edizione ampliata. s.l.

Il presidente Sergio Mattarella ricorda i migranti italiani

ROMA- Dopo aver accompagnatol'approvazione del decreto sicurezzacon una lettera in cui invita al rispetto della Costituzione, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ricorda i migranti italiani. E lo fa in un videomessaggio in occasione della prima puntata della trasmissione quotidiana "L'Italia con noi", dedicata agli italiani all'estero, in onda da oggi sul canale Rai Italia e in streaming su Rai Play.
"Sono tanti. In circa cento anni, tra il 1876 e il 1975, sono emigrati dall'Italia quasi 26 milioni di italiani. Si tratta davvero di una nazione fuori dalla nazione. Parliamo dei figli lontani, ai quali dalla madre Patria si guarda con ammirazione e con affetto particolari".
"Per chi vive in Italia è sempre motivo di orgoglio sapere che le comunità di origine italiana si sono guadagnate, nel tempo, rispetto, stima, considerazione e simpatia per l'impegno dimostrato nel Paese che li ospita, in tanti campi", aggiunge il capo dello Stato. "Questi successi, naturalmente, non possono far smarrire il ricordo di storie di sofferenza e di privazioni, affrontate con determinazione e con coraggio dai tanti migranti che partirono verso un destino ignoto per porre le basi di una condizione di vita nuova e solida, che non gli era possibile in Patria".
"L'emigrazione italiana ha spesso dimostrato di saper dare un'impronta determinante nei Paesi di approdo, in termini di idee, di energia, di creatività: dalla politica, all'economia, dalla cultura, all'arte. E le comunità italiane - conclude Mattarella - vanno particolarmente ringraziate per la cura con cui si occupano anche di tenere vive, in ogni parte del mondo, la cultura e la lingua italiana".
"la Repubblica", 8 ottobre 2018

A SPARTENZA

Sona la sirena di lu bastimentu,
duna lu signali d’a partenza.
Vu… vu… vuuuuu.

E lu bastimentu s’alluntana,
lentu lentu,
di la banchina
china di lacrimi di sangu.

È chinu di pirsuni migranti
stu bastimentu,
custritti a pàrtiri
pii la disoccupazioni.

A li spaddi làssanu ricordi,
parenti, amici cari,
ca salutanu a gesti,
a gola china.

Di 'nterra ci rispùnninu :
«Mi raccumannu!
Attentu pi’ lu mari!
Attentu cu cu ti unci,
cu cu ti vai a curcàri!»

‘U capitanu rumpi dd’emozioni,
e aràciu aràciu ordina:
«Barra a dritta! Avanti tutta! Saluto!»

E la sirena fu la prima e l’ultima a fàrisi sentìri:
Vu… vu… vuuuuu.
Lu vapuri parti,
e prestu scumpari mari mari.

Ciao figghiu, ciao patri, ciao amuri !

Serafino  AZZARA (21 ottobre 1988)

Ottobre, andiamo. E’ tempo di migrare

Il “Museo delle Spartenze dell’area di Rocca Busambra”, istituzione del Comune di Villafrati, componente della “Rete dei Musei siciliani dell’emigrazione” e della rete “Museologica”, organizza per il mese di Ottobre 2018 alcuni momenti di riflessione sulle migrazioni di ieri e di oggi, intitolati “Ottobre, andiamo. E’ tempo di migrare”.
Il Museo, inaugurato il 28 gennaio scorso, vuole rappresentare e documentare il fenomeno migratorio che, a partire dalla fine del secolo XIX ha colpito il nostro territorio, continuando nei decenni successivi fino ai giorni nostri. Nel periodo 1894-1920 sono emigrati circa 50.000 abitanti dai comuni di riferimento del Museo, che comprende, oltre a Villafrati, i Comuni di Corleone, Bolognetta, Marineo, Cefalà Diana, Godrano, Ventimiglia di Sicilia, Baucina, Ciminna, Prizzi, Vicari, Lercara Friddi, Mezzojuso e Campofelice di Fitalia. Paesi destinatari sono stati le due Americhe, i Paesi europei (soprattutto Svizzera, RFT, Francia), e il settentrione d’Italia. Nei saloni espositivi sono presenti documenti, oggetti, fotografie, filmati, arredi, bauli e valige che consentono al visitatore, anche grazie alle istallazioni dell’artista Domenico Giammanco, di immergersi nel passato della nostra popolazione.
Apriremo le iniziative il 3 ottobre, Giornata nazionale della Memoria e dell’Accoglienza, istituita dalla legge 45 del 2016 con lo scopo diricordare e commemorare tutte le vittime dell’immigrazione e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà.
In quella data il Comune di Villafrati ed il Museo organizzeranno un seminario informativo su cosa significa essere tutore volontario. Si vuole far conoscere la figura del tutore, quale forma di cittadinanza attiva, che valorizza la responsabilità dell’adulto nel servizio e nella cura dell’infanzia, ma anche nella costruzione di una comunità sociale educativamente connotata. Considerando che tra i nuovi protagonisti del fenomeno migratorio i Minori stranieri non accompagnati MSNA rappresentano un numero sempre maggiore di migranti che fuggono da violenze, guerre e miseria e che sbarcano sul nostro territorio nazionale, ritrovandosi nella maggior parte delle volte in condizione di alta vulnerabilità in quanto affrontano il viaggio senza i propri genitori durante l’infanzia o l’adolescenza, riteniamo che si debba porre attenzione ai loro bisogni e valorizzare la loro individualità culturale e religiosa, favorendo la piena integrazione nel contesto di arrivo, per superare la condizione di “straniero/nemico” in cui si viene a trovare il minore una volta giunto in Italia.
Si intende inoltre evidenziare la cultura migratoria presente in Sicilia attraverso la valorizzazione di opere cinematografiche realizzate nel passato e negli anni più recenti e attraverso la diffusione dell’opera poetica dell’emigrata siciliana Carmela “Millie” Galante Costa (Castellammare del Golfo 1910- Arizona 1968), che vedrà la presenza della pronipote Hildegard Nimke Pleva che verrà dagli Stati Uniti per presentare la nuova edizione del volume “Cu tia avissi avutu furtezza e casteddu” (in siciliano, italiano ed inglese) e far rivivere la vicenda della prozia Millie, giunta nel 1921 negli Stati Uniti, dicentata sarta di un grande atelier di moda: colpita da un male incurabile, ha scritto quaranta componimenti poetici nella parlata di Castellammare del Golfo.
Per dare vita alla costruzione di nuove tappe nella realizzazione del Museo delle Spartenze ospiteremo i responsabili del “MIM - Museo interattivo delle migrazioni” di Belluno, emanazione dell’Associazione “Bellunesi nel mondo,” con cui sarà pubblicamente firmato un protocollo di intesa per mettere in cantiere varie e diverse forme di collaborazione culturale e ricettiva nei prossimi anni.

L'emigrazione siciliana clandestina in Germania. Raccontata da Stefano Vilardo

Gli italiani hanno la memoria corta. Chi oggi si meraviglia dei flussi migratori “irregolari”, che hanno uno dei loro primi approdi nei porti e nelle coste siciliane, ha dimenticato che 50 anni fa “irregolari”sono stati molti nostri connazionali. C’è un libro, tra i tanti, che ha documentato in modo vivo e inoppugnabile il carattere clandestino di gran parte dell’emigrazione siciliana in Germania nei primi anni 60 del 900. Questo libro, scritto da Stefano Vilardo, s’intitola TUTTI DICONO GERMANIA GERMANIA e costituisce un documento prezioso della storia del suo paese, Delia (CL), oltre che un coraggioso atto di denuncia delle ragioni che costrinsero centinaia di migliaia di siciliani, in quegli anni, ad emigrare clandestinamente. La prima edizione del libro venne pubblicata nel 1975 dall’Editore Garzanti con una breve ma densa introduzione di Leonardo Sciascia. Scomparso dalla circolazione , malgrado la sua straordinaria attualità, il volume è stato riproposto nel 2007 da Sellerio. Chi scrive ne sta ricostruendo la genesi, dal momento che l’autore ci ha permesso di prendere visione delle originali bobine nelle quali registrò le interviste agli emigrati del suo paese natale. Pur avendo rielaborato poeticamente le testimonianze di questi ultimi, Vilardo è rimasto fedele alla lettera e allo spirito delle parole dei suoi compaesani. Una prima anticipazione della ricerca, tuttora in corso, è stata data nel saggio Poesia e storia in “Tutti dicono Germania Germania” di Stefano Vilardo presentato ad un Convegno Internazionale di Studi svoltosi nel 2010 all’Università di Cagliari e in un articolo pubblicato recentemente nella rivista telematica Dialoghi Mediterranei: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-voce-degli-emigrati-in-poesia/. A questi lavori si rimanda chi volesse saperne di più. Di seguito alcuni brani delle 42 storie raccontate nel libro. (fv)

Sono partito per la Germania / il due ottobre del millenovecentosessantuno / che qui non potevo più campare /io e la famiglia con quattro bambini / Sono partito da clandestino / e non ho passato le montagne a piedi come tanti altri / ma d’intrallazzo con le macchine / Centomila lire mi è costato / denari prestati al vento per cento / ma Dio mi ha aiutato / e ora alla posta ho qualche milione. (Stefano Vilardo, Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell’emigrazione, Sellerio 2007, pag . 19).

Partii per la Germania da clandestino / Per attraversare le montagne / feci dodici ore di cammino a piedi / soffersi molto ma appena arrivato / mi imbocciai in una fabbrica di prodotti chimici / Lavoravo a riempire fusti di acido / un giorno per poco non ci lasciai un occhio / chè una goccia mi schizzò in faccia […] Ci capiamo a gesti / a mano a mano gli rubiamo qualche parola / ma a me mi fanno schifo / ché ci trattano peggio dei cani / un giorno che entrai in un caffè con gli amici / che volevamo berci una bottiglia di birra / ci buttarono fuori a pedate. ( Sellerio, pp.47-48)

Molto prima d’emigrare lavoravo la terra / la lasciai ché non mi dava più da campare / e mi misi a fare il manovale /Insomma mi guadagnavo la giornata / poi un sommatinese mi convinse / a partire con lui per la Germania /Arrivammo a Ventimiglia / in venti persone tutte deliane / Per passare la frontiera / ci portarono per le montagne / in mezzo ai boschi / attenti alla Finanza / Non riuscimmo a passare / l’altra guida che doveva arrivare con le macchine / non venne / e noi restammo in mezzo alle montagne /senza acqua né pane / Allora un mio amico che aveva fatto più volte quella strada / mi portò con lui / Riuscimmo a passare / c’era la neve più alta di un metro / camminavamo con la bocca / ché non riuscivamo a stare dritti / tutti bagnati / mezzo soffocati dal vento / ma gli altri compagni li bloccò la polizia / A Grenoble trovammo dei paesani / che ci ricoverarono / e l’indomani ci portarono al lavoro / In Francia stavo bene / ma un mio amico mi disse / che in Germania pagavano meglio / allora andiamo a vedere / Passammo clandestinamente / di notte / alle due / Attendemmo dentro un cimitero che si facesse notte / so io la paura che mi presi (Sellerio, pp.80-81)

Partii da clandestino / con diversi paesani e sommatinesi e favaresi / Passammo le montagne / così alte che facevano spavento / Sette giorni di fame /che ci nutrivamo con la neve / Camminavamo di notte / per la paura che la polizia ci scoprisse ( Ibidem, pp.109-110)

***

Non riuscivo a campare qui /Lavoravo in miniera a Ramilia / per un salario di fame /         Il padrone il cavaliere Sala /ci faceva sempre scioperare /affinché la regione gli desse i contributi /Soldi sempre soldi /era come un pozzo senza fondo / ma a noi non lasciava che le briciole. ( Sellerio pag.31)

Uno scappa di casa e va all’estero / per i bisogni della famiglia / per risolvere il problema della casa / per amore dei figli per se stesso. / Solo come un cane / si mette sopra un treno / che lo porta in terre mai viste / tra gente che non conosce / e quando arriva è la cosa più brutta del mondo / chè uno non sa parlare non capisce. […]. È per questo che scappiamo all’estero / è per campare i nostri bambini. ( Sellerio pag.33)

Partii per la Germania / nel mese di novembre del sessantatré / e mi sembrò di essere andato all’inferno / […] /E’la lingua che non ci aiuta / Io mi faccio i fatti miei / E’ dal cinquantanove che vado e vengo / e ancora non capisco niente / Non parlo e lavoro come un mulo / allora mi rispettano/ Bisogna lavorare e stare zitti / […] Ritorno dal lavoro stanco morto / e arrivato in baracca devo cucinarmi / e lavarmi la roba e rattopparla / chi ha tempo di pensare alle donne / E’ vita questa / Vita di sacrifici / Ma io dico / che sempre noi dobbiamo farli questi sacrifici / ché siamo figli di puttana / muli siamo senza padre né madre (Sellerio, pag.26)

"La Spartenza" a Milano

Si terrà a Milano dal 13 al 16 settembre, il Festival Internazionale del Documentario “Visioni dal Mondo, Immagini dalla Realtà”, l’importante appuntamento con il cinema del reale, aperto al pubblico con ingresso gratuito, organizzato dalla società di produzione Frankieshowbiz, con la direzione artistica di Fabrizio Grosoli. Madrina della quarta edizione del Festival sarà l’attrice e regista Lorenza Indovina.
Al Festival temi di grande attualità mondiale saranno narrati, trattati, indagati attraverso il racconto del cinema del reale, un racconto che supera le barriere e porta uno sguardo autentico capace di offrire nuove consapevolezze. Le donne e il coraggio, la società e l’ambiente, la corruzione, l’identità di genere, l’immigrazione e il mare quale palcoscenico, teatro e crocevia secolare di guerra e di pace, di cultura e di civiltà, messaggero di storie di lavoro e sopravvivenza, ma anche muto spettatore di amore e di dolore. E ancora tecnologia, innovazione e futuro.
Durante i quattro giorni del Festival che trasformeranno Milano nella capitale del documentario, saranno raccontate, attraverso storie e voci diverse in grado di portare alla luce senza filtri aspetti poco noti o rimossi dal nostro quotidiano, la società e i suoi mutamenti.
L’ampia programmazione del 4° Festival prevede la visione di una selezione di film documentari nazionali e internazionali in anteprima alla presenza di ospiti, autori e autrici internazionali, masterclass, incontri e panel di approfondimento.
6 film documentari fuori concorso della migliore produzione cinematografica italiana contemporanea, tra cui l’anteprima de “La Spartenza” di Salvo Cuccia, in programma venerdì 14 settembre al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano.
Il documentario si ispira alla autobiografia di Tommaso Bordonaro “La Spartenza”, che vinse il premio Pieve 1990 per il miglior diario inedito. Spartenza significa separazione e partenza. Bordonaro emigrò nel 1948 negli USA e il documentario ci porta tra Bolognetta e il New Jersey. La sua storia è un frammento della storia generale delle migrazioni, toccante e unica perché raccontata in prima persona da un migrante. Ci interessa l’unicità e la particolarità della sua storia: la testimonianza di un solo individuo tra milioni di migranti, raccontata attraverso il libro e circa quattro ore di film privati.

"La grandezza dell'America? Non nascondere l’immondizia sotto il tappeto"

In questa torrida estate siciliana mi fanno venire i brividi certe fakes elettorali su una idilliaca e gaudiosa immigrazione italiana negli USA. Chi ha vissuto le tragiche esperienze di fine Ottocento e primi Novecento, di quei cafoni straccioni con le valigie di cartone, stivati nei transatlantici da negrieri, chi vi sopravvisse sa cosa significò il lager di Ellis Island.
La grandezza di una certa America eccelsa sta nel non nascondere l’immondizia sotto il tappeto: oggi quelle celle, con interriate come stive da polli, sono preservate ad eterno ricordo come museo, con schedari e anagrafe.
Avrei grande desiderio di leggere le schede di mio nonno e di mio zio, inoltratisi a lavorare in una fabbrica di shoes fino a Chicago, ove nel naso si formavano i ghiaccioli ed era un problema pure pisciare. Figurarsi riscaldamenti e altri lussi di benestanti. Ma non poterono o vollero restarci.
Come tanti odierni marocchini investirono il denaro in una nuova casa e in terreni di una cooperativa cattolica, divorati dalla grande depressione e subito comprati dalla mafia. La patimmo anche noi, come le più recenti crisi finanziarie partite dagli USA.
Allora gli Italiani erano alla pari dei neri, imperavano i wasp, sapete cosa intendo, se è un privilegio di razza ancora oggi, gli eredi di quei razzisti inglesi. E gli italiani, americanizzarono il nome, si camuffarono da inglesi.
Non ebbero miglior sorte nel continente australiano terra di deportazione fino a qualche anno fa dei galeotti inglesi (36 navi nel 1833). Navi stracolme. In Australia l’italiano era e forse è ancora un po’ più su dell’indigeno ritenuto animale e oggi mantenuto nelle riserve. I clandestini odierni sono deportati in un’isola dove restano apolidi e sequestrati a vita.
Noi, sì, nascondiamo l’immondizia sotto il tappeto. Si tace dei transatlantici carichi di migliaia di bambini venduti dalle madri troppo prolifiche e rivenduti come i negri, dal 1887 in Francia a Lione, poi in America latina e dal 1900 all’asta del porto di NY. E c’erano bravi ed esperti acquirenti locali, loschi figuri di negrieri della tratta dei bambini dai dieci ai quindici anni nel porto della Napoli della miseria, scotto dell’unificazione savoiarda, comprati in tutta Italia.
Poveri scafisti odierni, sono dei miserabili rispetto ai transatlantici che partivano stracolmi da Napoli. Si sapeva che ne sarebbero sopravvissuti una parte. Gli altri sarebbe stati cadaveri, cibo per i pescecani dell’Atlantico.
E passiamo all’altro spinoso tema dell’inclusione o con un beato eufemismo dell’integrazione. Il velo è islamico e lo punisce severamente la Francia dell’illuminismo (fine Settecento), e dei principi di civiltà, libertè, legalitè, fraternitè (c’è anche una fraternità cristiana, l’elemosina da parte di diverse sigle, in nome del Cristo della Maddalena, invocato però contro ogni diversità sessuale).
Chi può negare che la moderna migrazione in Italia è una vera e propria invasione. Non dimenticate, Leghisti, che quei Longobardi da cui vi appellate e vi vantate di discendere, come Goti, Ostrogoti,  Visigoti ed Eruli ed altri, avevano una formazione e una cultura acquisita ai confini della romanità.
Quel pugno di circa centomila invasori (dite voi migranti), giurò con Autari fedeltà a Costantinopoli ed impose sì su una buona parte di Italia i propri costumi e le leggi primitive come il guidrigildo, la faida e l’ordalia, stracciando con l’editto di Rotari una tradizione giuridica latina e gli insuperabili codici di Giustiniano.
Gli immigrati africani, come i neri di America, riempiono le carceri italiane: voglio dire che sono sottoposti e subiscono giustamente le norme del nostro codice penale e civile. Anche un turista italiano negli USA è sottoposto alle loro leggi. È diritto internazionale. Sono però una minoranza rispetto all’altra delinquenza più incisiva che proviene dagli Stati della nostra cosiddetta Unione europea.
Ma fa sempre impressione l’uomo nero. Da bambini ci si terrorizzava con la sua immagine che compariva in luoghi da proteggere. E l’Italiano medio, come tutti i benestanti del mondo, è terrorizzato dallo straniero, che lo defrauda di casa e lavoro (quello che lui non farebbe mai, ancor più oggi che crede nel reddito di cittadinanza).
Una volta si mise paura con i comunisti che mangiavano i bambini, poi con il pericolo giallo, sempre per meschine fake elettorali. Bisogna cavalcare le paure del popolo credulone privo di futuro. Trump insegna con la sua America dei muri faraonici, dei bambini separati, degli USA über alles.
La stirpe, la razza. Se si dovesse fare l’elenco dei popoli che inseminarono il Veneto, a cominciare dai profughi troiani! Perciò esclusi i neri cattivi che ci pagano le pensioni, la trovata: diamo cento euro di elemosina ai puri italiani per allevare un figlio. Con i loro trentamila e più euro al mese e altre guarentigie non sanno neppure quanto costino in ansie e denaro.Sembra di vivere sulla luna e di non sapere che la classe media non ne fa perché vuole godersi la vita e gli altri non ci provano perché temono per il loro futuro.
I nostri sedicenti fascisti moderni non conoscono l’intelligenza dell’inventore del regime. Gli Italiani non si fanno pagare per atti dannosi ai loro edonistici diversivi, si piegano solo davanti al bastone, per dire la semplice punizione e mai davanti al premio: Mussolini perciò introdusse la tassa sul celibato.
Ancora mi chiedo se non sono pure io frutto di questo originale incremento demografico. Lo suggerisco ai nostri governanti. Anche pochi euro di multa convincerebbero i recalcitranti.
E per concludere in gloria. Oggi i nostri italiani, anche i Siciliani, hanno una certa fama negli USA. Non ultimo il simpatico Travolta in John Gotti con presentazione del figlio pentito a Cannes.
Un mio importante concittadino si è opposto alla concessione della cittadinanza italiana ad un altro famoso attore che ha impersonato per anni la Sicilia dei padrini e dei Corleone. Ma ci sono stati altri grandi artisti che hanno descritto l’America con l’Italian style, penso a Scorsese e Tarantino.
La nostra terra è altro negli USA. L’eminenza culturale e politica da Capra a Sinatra a DeLillo per fare dei nomi. Se i Siciliani si integrarono bene negli USA, fu solo nel caso del gangsterismo irlandese e la mafia con il pizzo e la droga.
Altri lottarono contro, per tutti Joe Petrosino con la sua lapide a Palermo a piazza Marina. Per Sacco e Vanzetti fu un’altra storia. Sarebbero andati alla sedia elettrica comunque non perché italiani: erano semplicemente attivisti e anarchici, pur se falsamente accusati di omicidio durante una rapina. Non si pretese di integrare gli Italiani, né questi lo fecero.
A New York esistono ancora associazioni e congregazioni di piccoli paesi con le loro processioni folkloristiche e i loro giochi di fuoco, con i San Gennaro e le Madonne del Carmelo (un seguito santuario in Arizona). Un mio compaesano che ha fatto fortuna ha preservato un bel S. Giorgio nostro protettore.
L’America e soprattutto New York non si sono mai sognati di integrare, ma accolgono tutte le tradizioni e costumi, tutti i culti e i riti, non impediscono la costruzione di una moschea come nella moderna civile Milano o la nascondono al Vaticano come a Roma.
E i miei illustri concittadini sono orgogliosi delle loro origini, della loro identità culturale siciliana, che non è la mafia da folklore, e sono venuti a mostrare all’ultima terza generazione la supposta casa dei bisavoli. E altri prizzesi di quarta generazione hanno chiesto la cittadinanza italiana, per sé e per i propri figli, consapevoli delle proprie radici e della propria identità. Che gli USA non hanno mai preteso cancellare, anzi hanno favorito il pluralismo come arricchimento culturale. Il più grande crimine è privare un popolo della sua identità culturale.
La Costituzione americana è stata approvata a Filadelfia dal nucleo dei tredici stati fondatori il 17 settembre 1787 (a 261 anni fa nessuno ne mette in dubbio la sua modernità e bontà): “Noi consideriamo come incontestabili ed evidenti per se stesse le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, che tra questi diritti sono, in primo luogo, la vita, la libertà, e la ricerca della felicità”.
Mai lode potrà essere adeguata al direttore di questo giornale per avervi posto come occhiello il primo civilissimo e umano emendamento: “I. — Il Congresso non farà alcuna legge per la istituzione di una religione o per proibirne il libero esercizio; o per restringere la libertà di parola o di stampa o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e di rivolgere petizioni al Governo per la riparazione di ingiustizie”.
Carmelo Fucarino (La Voce di New York)

Migrazioni? Nessuna emergenza, sono una costante della storia

Migrazione, accoglienza, integrazione. Sono le parole chiave della “crisi” della nave Ubaldo Diciotti, da tre giorni in stallo al Porto di Catania con a bordo oltre centocinquanta migranti in attesa di conoscere il proprio destino nel braccio di ferro tra il Governo italiano e l’Unione Europea. Ma sono il leit motiv di un’intera fase storica, la nostra, che vede un flusso sempre più robusto di persone in movimento da continenti diversi e Governi occidentali irresoluti nell’affrontarlo. Ma quella delle migrazioni non è affatto una novità. E la fase attuale dev’essere letta alla luce di movimenti simili del passato. Lo dice in quest’intervista ad Hashtag Sicilia il professore Rosario Mangiameli, ordinario di Storia contemporanea al dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Catania.
Professor Mangiameli, la fase migratoria che stiamo vivendo presenta caratteristiche eccezionali o esistono precedenti storici?
“Le migrazioni – emigrazione ed immigrazione – sono sempre state all’ordine del giorno, dagli albori della Storia fino ad oggi. Si trattava di migrazioni armate, come quelle dei Goti, dei Longobardi, degli Unni, dei Mongoli; oppure di migrazioni non armate, dovute alla spinta popolare e alla ricerca di migliori condizioni di vita. Nel mondo contemporaneo nessun Paese, nessuno, è immune da questo fenomeno. Nei momenti di eccedenza della popolazione qualcuno è andato via, poi altri sono venuti aiutando a costruire lo sviluppo. Da questo punto di vista gli Stati Uniti d’America sono l’esempio migliore”.
Proprio verso gli Stati Uniti, in un passato non troppo lontano, si misero in viaggio tanti emigranti italiani.
“Ma in Italia abbiamo avuto anche un fenomeno di migrazione interna: si emigrava non solo per andare in America, in Argentina, in Australia, ma anche dal Sud verso il Nord Italia. E questo è molto importante, perché ci ricorda un fatto: le migrazioni hanno sempre suscitato la paura del diverso. I terroni erano sporchi e delinquenti, gli italiani d’America tutti mafiosi. Era vero che ce n’erano, di mafiosi, ma non che lo fossero tutti, come non sono tutti terroristi gli islamici, come non sono tutti delinquenti gli albanesi. In tutti i popoli vi sono invece grandi lavoratori che hanno contribuito al benessere del Paese che li ha ospitati”.
Che tipo di soluzioni adottarono questi Paesi per volgere a loro vantaggio i flussi migratori del passato?
“Usarono la logica. La risposta non è certo fermare l’immigrazione, che tanto ritorna sempre sotto forma clandestina. La risposta è legalizzarla. Il periodo migliore dell’America democratica fu quello di Roosevelt, che con il New Deal riconobbe la cittadinanza agli immigrati stranieri che si trasformarono in una grande risorsa democratica ed economica per gli USA, tirandoli fuori dalla crisi. Affrontare questi temi con apertura è la cosa più importante”.
La nostra Catania vive in questi giorni una fase drammatica con la crisi della nave Diciotti, tuttora in stallo nel nostro porto.
“Innanzitutto vorrei salutare ed unirmi idealmente agli amici che ieri hanno portato l’arancino ai migranti. Se fossi stato a Catania mi sarei unito volentieri. Anche riguardo a questa crisi, andrebbe ribadito che l’immigrazione di per sé non è un’emergenza, ma un fatto assolutamente assorbibile. Potrebbe essere gestita senza bisogno di creare allarmi, che invece servono a scopi specifici”.
Quali sono questi scopi?
“Anzitutto la strumentalizzazione politica sulla paura del diverso. E poi c’è un obbiettivo economico, quello di avere manodopera a basso costo, senza diritti, da sfruttare. Sono proprio coloro che sfruttano queste persone a voler creare la spaccatura tra i lavoratori creando divisione ed allarme sociale. Chi rifiuta l’immigrazione legale vuole quella clandestina, che poi può essere sfruttata. Con una regolarizzazione si avrebbero situazioni diverse nel mercato del lavoro”.
Secondo molti la responsabilità di questa situazione è europea. E si invoca un ritorno alla sovranità nazionale.
“Non c’è dubbio che si registri una mancanza dell’Europa. Oggi di fatto non esistono più gli Stati sovrani, essendo parte di questa sovranità passata all’Unione Europea. Ma questa è una necessità in un’economia globalizzata, che vede attori economici a volte più potenti degli stessi Stati. Uno Stato normale, in queste condizioni, non riesce più ad essere un regolatore dell’economia. Anche con la vecchia lira saremmo insufficienti. Sovranismo e nazionalismo sono utopie reazionarie”.
Cosa dovrebbe fare dunque l’Europa?
“Un passaporto europeo per chi sbarcasse da noi potrebbe essere una soluzione. Non parlo di cittadinanza, che arriverebbe eventualmente in seguito: sarebbe un documento d’identificazione europeo, riconoscibile tramite le reti informatiche, che permetterebbe a queste persone di circolare liberamente senza essere confinate nei ghetti, per le strade e ai semafori, cadendo spesso nelle mani della criminalità organizzata”.
Professore, se si trovasse di fronte il Ministro Salvini cosa gli direbbe in merito a questa crisi e alla sua gestione?
“Da catanese lo inviterei ad essere più tollerante; da cittadino lo richiamerei ad una maggiore misura delle parole. Ieri il Ministro ha detto che i minorenni della Diciotti sarebbero sbarcati, mentre gli altri possono attaccarsi. Ma che linguaggio è? Mi sembra che nostri governati, in testa il Ministro degli Interni, stiano cercando di distruggere attraverso il linguaggio il nostro sentimento democratico. Bisogna moderare i termini e tornare alla lingua della Costituzione italiana”.
DAL SITO WWW.HASTAGSICILIA.IT

"Marinesi nel mondo": convegno al castello Beccadelli

L'emigrazione dei nostri nonni di fine Ottocento, ma anche quella dei giovani di oggi. La festa di San Ciro e le sue radici, salde nel passato, ma anche le nuove opportunità che si possono creare in una società in continua evoluzione, per costruire un futuro all'insegna della fratellanza tra i popoli. Saranno questi i temi al centro della giornata dei “Marinesi nel mondo” in programma per lunedì 20 agosto, alle ore 17, nella sala conferenze del Castello Beccadelli di Marineo. L'evento è organizzato congiuntamente dal Comune di Marineo e dal Museo delle Spartenze, istituzione nata con lo scopo di offrire la documentazione della esperienza migratoria che ha coinvolto la provincia di Palermo, in particolare le popolazioni dei centri abitati compresi nell’area geografico-culturale dominata dalla Rocca Busambra. Il programma prevede i saluti di Franco Ribaudo, sindaco di Marineo e di Francesco Schimmenti, superiore della Confraternita di San Ciro, gli interventi di Franco Vitali, antropologo, di Santo Lombino, direttore scientifico del “Museo delle Spartenze dell’area di Rocca Busambra” e di Salvo Cuccia, regista del documentario "La Spartenza" di Abra&Cadabra e RAI Cinema. Prevista la proiezione di inedite immagini della “Dimostranza” di San Ciro girate nel 1955 da Tommaso Bordonaro, autore del noto libro-diario “La spartenza”. A conclusione del convegno, l’Amministrazione comunale e la cittadinanza incontreranno gli emigrati presenti a Marineo nei giorni della festa di San Ciro.

San Ciro nella Little Italy di New York

Sul finire dell'Ottocento, i primi emigrati di Marineo diedero vita ad una colonia a Elizabet Street, nei pressi della Little Italy di New York. Presto costituirono un loro sodalizio: lo statuto della Società Religiosa San Ciro venne ufficialmente approvato il 27 agosto 1905. Un dollaro era la tassa di ammissione e venticinque centesimi di dollaro al mese dovevano essere versati come rata mensile dai soci. Come in tutte le associazioni di mutuo soccorso era prevista l’assistenza per i nuovi arrivati, a partire dalla sistemazione in una abitazione e dalla ricerca di un primo lavoro. Molti sodalizi creavano e mantenevano fondi finanziari che assicuravano un prestito ai soci in difficoltà economica che ne facevano richiesta. Nel 1909 in una vetrina di un negozio di Manhttan, fece la sua comparsa una statua d’argento di San Ciro. In quei locali si incontravano i fondatori della società religiosa per organizzare le prime feste comunitarie. Il culto del santo patrono fu, infatti, uno dei vincoli più forti sul piano emotivo, in grado di legare i primi immigrati di Marineo gli uni agli altri e al paese di origine. La religione e il sodalizio in nome del santo protettore rimasero per lungo tempo l’unico punto di riferimento per la comunità e l’unico sostegno nei momenti di difficoltà per i singoli individui. Già a partire dai primi anni del Novecento, l’ultima domenica di gennaio si celebrava la cosiddetta “festa povera”. Mentre nel mese di agosto, di solito il secondo week-end, si svolgeva la “festa ricca”, che prevedeva tre giorni di manifestazioni, dal venerdì alla domenica. Le funzioni religiose si celebravano all’interno della chiesa italiana della Madonna di Loreto, mentre le strade e i blocchi della piccola Italia facevano da cornice ad una partecipatissima  processione.

I pacchi dono dall'America dell'immediato dopoguerra

I bombardamenti Americani nel 1943 erano stati devastanti per la città di Palermo. Molti dei residenti, preavvisati dalle sirene, per interminabili giorni avevano trovato rifugio nei vari ricoveri allestiti in centro. Altri, per scampare al pericolo, si erano nascosti nelle grotte dietro la chiesa San Ciro di Maredolce.  Indubbiamente, le conseguenze economiche della guerra sono state molto sentite dalla nostra popolazione: famiglie numerose, che già in passato avevano stentato a tirare avanti, adesso soccombevano alla più crudelle miseria per mancanza di lavoro, di cibo e di vestiario. L'emigrazione italiana nelle Americhe, che era stata di cospicue dimensioni a partire dalla seconda metà dell'Ottocento fino ai primi decenni del Novecento, quasi si era esaurita nel ventennio fascista, ma ebbe una notevole ripresa subito dopo la Seconda guerra mondiale. Infatti, proprio in quel periodo, diversi capofamiglia lasciaronono la nostra terra ed emigrarono verso luoghi lontani, dove più facilmente potevano trovare sostentamento. Chi restava e poteva coltivare un orticello riusciva a sfamarsi con quel poco che la terra produceva e veniva perfino invidiato dagli abitanti del capoluogo, che cercavano di spostarsi nei paesi della provincia alla ricerca di un parente o conoscente, nella speranza di racimolare qualcosa da portare a casa per i propri cari. Erano tempi duri, trascorsi a sperare per una rapida ripresa economica. Chi aveva un parente in America, a volte, riceveva un pacco inviato da chi conosceva la situazione di crisi italiana consapevoli dell'aiuto che potevano dare ai loro congiunti, anche con un piccolo dono. Era facile negli Stati Uniti ottenere vestiario vario a buon prezzo. A New York, per esempio, esisteva un quartiere  nella bassa cittá del lato est, conosciuto come Orchad street, dove nelle bancarelle del mercato all'aperto gestito dagli ebrei si trovava un po’ di tutto, con la possibilità di mercanteggiare sul prezzo. Ricordo che a mia zia Rosaria, che viveva a Marineo, una volta dall'America ricevette un pacco come tanti che ne arrivavano in paese. Con trepidazione ne svuotò il contenuto apprezzando ogni capo di vestiario. Ad un certo punto si trovò fra le mani un indumento misterioso, a lei assolutamente sconosciuto: dopo averlo girato, rigirato ed esaminato per alcuni interminabili minuti, di colpo si rese conto della sua utilità. Così, tagliò il laccio che univa le due parti (del reggiseno) per ricavarne due... "coppole": una per mio cugino Vincenzo e l'altra per suo fratello Totó. Ciro Guastella

Museo delle Spartenze: i nostri contatti su Facebook e Twitter

Il sito del Museo delle Spartenze (http://www.museospartenze.com) ha raggiunto quota 10.000 visualizzazioni in un solo mese. Da oggi, alla pagina di Facebook @museospartenze, abbiamo aggiunto anche un profilo su Twitter, che trovate con il nome @spartenze. Attraverso questi mezzi potete tenervi aggiornati sulle attività del museo, leggere i commenti, partecipare alle discussioni e sostenerci. Per condividere gli articoli basta cliccare (sotto) sull'icona del social preferito.

La traversata transoceanica 1880-1915

"Figuratevi cinquecento persone ammassate in uno spazio di altrettanto metri cubi d'aria, con una ventilazione insufficiente in condizioni normali, più insufficiente allora, perchè gli hoblots a murata del corridoio inferiore erano rasenti alla linea d'acqua e gli altri con il mare agitato non si potevano aprire... E' il soverchio ammassamento, che fa dei piroscafi nazionali non trasporti di passeggeri, ma trasporti di carne umana. L'uomo viene considerato merce che va nella stiva diligentemente, fin nelle ultime frazioni di metro cubo, che la stazzatura rende disponibile a bordo; che poi la merce così trasportata presenti qualche avaria poco importa". Con questa frase il Conte Ferruccio Macola, in viaggio verso il Brasile sul piroscafo Washington, ci descrive le terribili condizioni in cui versavano gli emigranti sui bastimenti verso il Nuovo Mondo. Il viaggio in nave durava circa un mese. I passeggeri, dopo esser saliti a bordo, dovevano affrontare una traversata molto dura, piena di disagi e sofferenze: c’era il pericolo di naufragio o di ammalarsi di una malattia contagiosa a causa dell’affollamento e della sporcizia.Oltre al trauma e alle sofferenze del distacco dalla loro terra, dovevano affrontare un viaggio lungo e non privo di disagi. I migranti venivano stivati in terza classe, in condizioni miserevoli, prive d’igiene e in luoghi dove non era consentita alcuna privacy. I pasti venivano distribuiti negli spazi comuni di ciascun compartimento per gruppi di sei persone, una delle quali a turno è incaricata del ritiro delle vivande dalla cucina: “Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe, e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come i poveretti alle porte dei conventi. E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante”. I dormitori degli emigrati erano ambienti stretti, sporchi, privi di luce e aria. Nel primo decennio del Novecento, accadeva ancora che, per speculare sui flussi migratori, le compagnie adibissero le stive dei bastimenti a dormitori. Inoltre le compagnie di navigazione non differenziavano la tipologia delle loro navi e le adibivano sia al trasporto di merci che di uomini. In questi luoghi era frequente l'insorgere di malattie ed epidemie. Nei primi anni del ‘900 per il trasporto degli emigrati venivano ancora usati vecchi piroscafi privi di essenziali requisiti di sicurezza e di igiene. Quando cominciano a essere attivati i dispostivi di tutela previsti dalla legge del 1901 sul trasporto per il mare degli emigrati, avviene un progressivo ammodernamento delle flotte usate per il loro trasporto. Questa legge istituiva ispettorati di emigrazione in ciascun porto d’imbarco e commissari viaggianti da scegliere tra gli ufficiali medici della Marina. Il compito di questi commissari consisteva nell’accertarsi che le navi possedessero tutti i requisiti di sicurezza e igiene e inoltre dovevano essere i garanti della salute degli emigranti imbarcati. Sono state però soprattutto le restrizioni messe in atto dagli Stai Uniti a costringere le flotte marittime a ritirare, dal trasporto degli emigrati, i vecchi piroscafi. Inoltre veniva consentito lo sbarco soo alle navi in regola con le norme sanitarie e di sicurezza. Giusi Scibetta

Dal 2008 al 2016 mezzo milione di italiani all’estero

Un esercito di 509.000 connazionali si è cancellato dall'anagrafe per trasferirsi all'estero per motivi di lavoro tra il 2008 e il 2016. Lo rivela il rapporto "Il lavoro dove c'è" presentato oggi a Roma dall'Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro. La prima destinazione degli italiani in fuga dalla crisi è stata la Germania, dove nel solo 2015 in 20mila hanno trasferito la residenza; al secondo posto la Gran Bretagna (19mila) e al terzo la Francia (oltre 12mila). Mobilità in crescita anche all'interno del territorio nazionale: in 7 anni oltre 380mila residenti si sono trasferiti dal Mezzogiorno verso le regioni del Centro-Nord.

Italiani ( e stranieri) "in fuga" dalla crisi
L'esodo occupazionale degli italiani verso l'estero, si legge nel dossier dei Consulenti, ha subito un significativo incremento a partire dal 2012, anno in cui a fare le valigie erano state 236.160 persone, cifra salita a 318.255 nel 2013 e a 407.114 nel 2014, per poi superare il mezzo milione nel 2015. Ma non sono stati solo gli italiani ad abbandonare la penisola: tra il 2008 e il 2016 quasi 300mila cittadini dell'Est dell'Europa, in particolare romeni, polacchi, ucraini e moldavi, sono tornati in patria perchè il costo del trasferimento di residenza nel nostro Paese «non era più giustificato dai redditi da lavoro percepiti».

Oltre 380mila "emigrati" da Sud a Centro-Nord
Resta inoltre evidente il divario Nord-Sud, che spinge ancora molti italiani a cercare lavoro oltre i confini regionali. Dal 2008 al 2015, dice il rapporto, la disoccupazione nel Mezzogiorno «ha prodotto un aumento di 273mila residenti al Nord e di 110mila al Centro», per un totale di 383mila persone andate via dalle regioni del Sud. I flussi migratori più intensi sono stati quelli da Campania (-160mila iscritti all'anagrafe dei comuni), Puglia e Sicilia (-73mila). Le regioni che hanno ricevuto il numero maggiore di cittadini sono Lombardia (+102mila), Emilia Romagna (+82mila), Lazio (+51mila) Toscana (+54mila).

Il 54% degli occupati lavora nel suo comune di residenza
Il rapporto mette in evidenza come negli ultimi anni il lavoro nelle città di residenza sia diminuito e le opportunità siano distribuite in maniera non omogenea sul territorio. Lavorare nel comune di residenza sembra, infatti, un «privilegio» riservato agli occupati tra i 15 ed i 64 anni residenti in 13 grandi comuni con oltre 250 mila abitanti. Tra questi comuni -spiega il rapporto - Genova, Roma e Palermo registrano nel 2016 oltre il 90% di occupati residenti , mentre più di un occupato su dieci lavora in una provincia diversa da quella di residenza.

Pendolari, Milano epicentro degli spostamenti interprovinciali
Sul fronte del pendolarismo quotidiano tra provincia e provincia, i dati dicono che Milano è l'epicentro degli spostamenti interprovinciali in Italia, soprattutto per le sue brevi distanze, l'intensità delle occasioni di lavoro ed i servizi di trasporto efficienti. In particolare, la provincia di Monza e Brianza contribuisce all'economia del capoluogo lombardo con 118 mila occupati (6,9%), seguita da Varese con 59 mila (3,5%), Bergamo con 48 mila (2,8%) e Pavia con 34 mila (2%).

All'estero si guadagna mediamente 500 euro in più
Spostarsi presso una provincia confinante, dice il rapporto, comporta un aumento dello stipendio medio di circa 181 euro (+14% rispetto a coloro che lavorano nella provincia di residenza). Se la distanza aumenta e si deve raggiungere una provincia non confinante, il compromesso medio fra costi e benefici richiede un aumento dello stipendio netto di circa 340 euro (+26,4%). Se, invece, si va a lavorare all'estero, la differenza fra lo stipendio medio di chi lavora nella stessa provincia e di chi emigra per lavorare supera i 500 euro (+43,8%).
Alessia TRIPODI, Il Sole 24 ore

Ellis Island

La porta di ingresso per gli Stati Uniti era Ellis Island, un piccolo isolotto situato nella baia di New York. Il porto di Ellis Island nel corso della sua storia ha accolto più di 12 milioni di aspiranti cittadini statunitensi (prima della sua apertura altri 8 milioni transitano per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan). Dal 1892 al 1954 (anno della chiusura), Ellis Island divenne la principale stazione di accesso e di smistamento degli emigrati negli Stati Uniti. Il picco più alto di arrivi si è registrato nel 1907 con 1.004.756 di persone approdate. Ellis island era la porta del sogno: da lì si apriva la strada per cercare la fortuna. Quando le navi attraccavano nel porto di New York, non tutti i passeggeri venivano fatti sbarcare: era concesso lasciare la nave solo ai cittadini americani e ai passeggeri di prima e seconda classe. Gli emigrati invece, passeggeri di terza classe, subivano un trattamento diverso: venivano fatti salire su dei traghetti, che erano di solito sovraffollati, e da lì condotti a Ellis Island, dove sarebbero stati sottoposti a dei rigidi controlli: l'esame medico e amministrativo che avrebbe deciso la loro sorte. Chi doveva essere trasportato ad Ellis Island veniva comunque tenuto,a volte per, ore su queste imbarcazioni, spesso senza acqua nè cibo. All' arrivo gli emigrati dovevano inizialmente esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li ha portati a New York, dopo di ciò iniziava la lunga attesa per i controlli medici. I controlli effettuati erano molto rigidi e severi e per questo motivo Ellis Island è stata ribattezzata "l'isola delle lacrime" . Gli immigrati venivano controllati singolarmente e venivano accertate le loro condizioni fisiche e mentali. Le persone ritenute sospette venivano segnate con una lettera che veniva scritta sulla schiena con un gesso,per esempio se le persone avevano delle affezioni al viso, venivano segnate con una “F” (face), la “E” (eyes) indicava le malattie agli occhi, l’”H” (heart) stava per il cuore, infine la “X” indicava debolezze mentali. Le persone segnate dovevano subire un ulteriore controllo che decideva l'idoneità o l'obbligo al rimpatrio. Spesso, chi veniva rifiutato e obbligato a risalire sul bastimento che lo avrebbe ricondotto nello Stato di partenza, si buttava in mare per cercare di raggiungere Manhattan a nuoto. Gli immigrati che riuscivano a dimostrare di essere idonei allo sbarco venivano condotti nella Sala di Registrazione dove gli ispettori li interrogavano a uno ad uno, successivamente venivano trasferiti, con un altro traghetto, a Manhattan e fatti scendere a Battery; da quel momento in poi gli immigrati erano liberi di dirigersi nelle varie città di destinazione . Dopo aver accolto milioni di persone, nel 1954, Ellis Island ha chiuso i battenti. I registri  dell'immigrazione, sono stati conservati negli edifici un tempo usati per gli uffici dell'immigrazione. Dal 1990, l'isolotto è sede del Museo permanente dell' Immigrazione ed è divenuto tappa obbligata di migliaia di turisti. Giusi Scibetta

Immigrati a Misilmeri

La presenza degli stranieri è ormai a Misilmeri una realtà con cui bisogna confrontarsi quotidianamente, sia come società civile, sia come istituzioni. Il dato numerico in sé non sembra tanto significativo, se confrontato con la popolazione locale. Parliamo dell’1 % circa rispetto alla popolazione, che è di circa 20 mila abitanti . Per lo più si tratta di magrebini, in particolare provenienti dal Marocco, ma ci sono anche tunisini, qualche rumeno, qualche famiglia di cinesi che a Misilmeri gestiscono attività commerciali nel campo dell’abbigliamento, altri provenienti dall’Africa subsahariana, altri ancora dal sud est asiatico. In genere gli stranieri si occupano di vendita ambulante di vari prodotti nei “mercatini” di paese o attraverso bancarelle stabili in prossimità delle piazze. Saltuariamente alcuni trovano lavoro nell’agricoltura come raccoglitori o aiutanti nella potatura stagionale degli agrumeti o degli uliveti. Altri lavorano nelle piccole aziende artigianali presenti sul territorio, o nella molitura delle olive. Altri ancora trovano impiego nel campo edilizio, anche se si tratta di un settore sempre più in crisi. Le donne invece sono per lo più casalinghe o raramente svolgono l’attività di “badanti” presso persone anziane, o vengono chiamate per le “pulizie”. Occupazioni quasi sempre in nero, senza quindi alcuna tutela di carattere sanitario e previdenziale. Una buona parte degli immigrati usa Misilmeri come luogo di passaggio verso regioni o città italiane o europee che possono offrire maggiori opportunità. C’è quindi un flusso difficilmente quantificabile, come difficile è da quantificare la presenza clandestina che sicuramente risulta piuttosto consistente, se si considerano i numeri nazionali. Non manca qualche caso di matrimonio misto con prole. Anche a livello scolastico la presenza di alunni stranieri è piuttosto scarsa. Nella scuola media si contano otto studenti su 970 con una percentuale dello 0,82 %. Il livello culturale è medio basso, ed anche dal punto di vista economico gli stranieri vivono condizioni abbastanza critiche, anche se riescono ad affrontare le difficoltà in modo dignitoso. Ma i numeri, come si diceva prima, non restituiscono la complessità del fenomeno, se si considera che dietro ogni numero c’è una persona o un bambino/adolescente. Non si può dire infatti che gli stranieri a Misilmeri siano integrati nel tessuto sociale, soprattutto dal punto di vista delle relazioni umane, che rappresenta l’indicatore più importante per comprendere il livello di integrazione. Essi formano una specie di corpo separato rispetto alla comunità autoctona. È raro vedere un immigrato dialogare per la strada con un italiano o passeggiare con un amico italiano. Di solito formano dei gruppi, parlano tra loro, quasi sempre nella loro lingua e mantengono una distanza culturale abbastanza netta. La separazione è meno cronica a livello scolastico, dove, anche grazie all’esiguità del numero, i ragazzi stranieri riescono ad interagire con gli altri e a dialogare con i coetanei, anche se non mancano episodi di intolleranza che però sono espressione di un generale degrado dell’ambiente studentesco. Intolleranza e prevaricazione sono, infatti, atteggiamenti attuati nei confronti di chiunque manifesti una qualche forma di diversità sociale, culturale o fisica, o una semplice fragilità emotiva. Carmelo Fascella

La lingua passa il mare. Migranti siciliani in Tunisia

A partire dalla seconda metà del secolo XIX, la Sicilia fu interessata non soltanto dai grandi movimenti migratori verso il continente americano (NordAmerica, Argentina, Brasile), di cui cospicue sono le testimonianze, ma anche dagli spostamenti verso i paesi del bacino mediterraneo dell’Africa: Algeria, Egitto, Marocco, Tunisia. Ciò appare sorprendente, se si guarda alle immigrazioni di oggi. Negli anni Trenta del Novecento in Tunisia vivevano circa 100.000 siciliani provenienti dalle provincie di Trapani, Palermo, Ragusa e Agrigento. Le cause di questo fenomeno sono individuabili nelle condizioni di miseria della terra di espulsione, nella crisi agraria, nel forte incremento della popolazione nei primi anni del 1900, nel conseguente aumento della disoccupazione; ma sono anche rintracciabili nel potere attrattivo della terra di approdo, nelle seducenti condizioni economiche e politiche della Tunisia francese di fine Ottocento e nella conseguente catena di richiamo degli immigrati verso i connazionali residenti in patria. Già nel secolo XVIII la Tunisia era abitata da imprenditori e commercianti livornesi e genovesi, proprietari di tonnare, per esempio, che reclutavano la manovalanza in Sicilia. Nella prima metà dell’Ottocento, la città di Tunisi divenne centro di cospirazione politica per mezzo di carbonari o mazziniani, che qui trovarono rifugio, decidendo di rimanervi anche dopo l’Unità d’Italia. Motivo di attrazione per i braccianti furono le convenienti tipologie di contratti di affitto delle terre (enzel, mhagarni) che permisero a molti di diventare proprietari. Dopo il 1881, la manovalanza siciliana fu richiamata dalle imponenti opere di rinnovamento che avviava il protettorato francese: la costruzione del porto di Tunisi e di quello di Biserta, e della linea ferrata Tunisi-SousseKairouan. La Tunisia appariva insomma un paese in cui era possibile per mezzo del lavoro raggiungere uno stato di benessere. Si formarono colonie di siciliani soprattutto lungo la costa settentrionale, a Mahadia, a Susa, nella penisola del Capo Bon, a Biserta, a Tunisi, dove sorse nella zona portuale (la Goulette) la Piccola Sicilia, abitata perlopiù da pescatori. A Susa o Sousse sorsero Capaci Grande e Capaci Piccolo, dal nome della località vicino a Palermo. Nei territori ad ovest, confinanti con l’Algeria, la presenza degli immigrati era legata all’estrazione dei minerali. In questa zona, nei dintorni di El Kef, vivevano venticinque famiglie originarie di Roccapalumba. Questi luoghi dell’immigrazione divennero dei veri microcosmi culturali, eterotopie di un luogo altro, della patria negata: gli immigrati della Goulette non rinunciarono ai festeggiamenti della Madonna di Trapani. La statua ogni anno, il 15 agosto, e fino a poco tempo fa, veniva portata in processione per le strade di Tunisi pure dai musulmani che la chiamavano “la bedda matri di Trapani”. Questa meravigliosa convivenza multiculturale si interruppe nel 1956, quando la Tunisia ottenne l’indipendenza dalla Francia e cominciò il processo di decolonizzazione. La linea nazionalistica di “tunisificazione”, intrapresa del leader indipendentista del Neo Destour Habib Bourguiba, costrinse tutti gli stranieri a rimpatriare. Pochi siciliani ritornarono in Sicilia: furono accolti nei campi profughi allestiti in Lombardia, in Puglia e in Emilia. Stranieri in Patria, molti si recarono in Francia, paese sentito culturalmente più vicino sia perché ne conoscevano la lingua, avendo preso la nazionalità francese, sia perché in Tunisia avevano lavorato presso un’azienda francese. La presenza contemporaneamente nel secolo XX in Tunisia di siciliani, francesi, italiani, tunisini favorì le interferenze linguistiche e diede origine a una straordinaria lingua creola. S.C.